Qualunque momento è il momento giusto per iscriversi alla Pro Loco, in particolare all’inizio dell’anno!
Diventa socio anche tu!
Da socio potrai essere un sostegno importante per noi e contribuire alla realizzazione delle attività che l’Associazione porta avanti durante l’anno per rendere vivo e promuovere il nostro territorio.
Diventare socio comporta solo gli obblighi e gli impegni indicati dallo Statuto.
Scopo istituzionale delle Pro Loco è promuovere, in ogni forma e con ogni mezzo, la conoscenza, la tutela, la valorizzazione, la fruizione in termini di conservazione delle realtà e delle potenzialità turistiche, naturalistiche, culturali, artistiche, storiche, sociali ed enogastronomiche del territorio in cui operano.
La PRO LOCO ACQUEDOLCI APS fa parte del Terzo settore ed è iscritta al Registro Nazionale (R.U.N.T.S.); opera sul territorio con due obiettivi principali:
• Valorizzazione del patrimonio artistico-culturale del nostro centro
• Organizzazione di eventi che favoriscano l’aggregazione sociale
A questo scopo:
PROMUOVE il nostro paese in tutte le sue espressioni (artistiche, storiche,culturali, enogastronomiche, naturalistiche, sociali …)
FAVORISCE il turismo: fornendo informazioni per, e organizzando, visite guidate ed escursioni nel territorio e nel centro storico, partecipando ad eventi anche fuori zona, realizzando depliants e materiale promozionale, organizzando convegni, sagre, eventi sportivi …
UNISCE creando occasioni di incontro e di collaborazione tra le persone e le associazioni.
ORGANIZZA attività, eventi e manifestazioni direttamente o in collaborazione con altre associazioni e enti.
LA PRO LOCO LAVORA TUTTO L’ANNO!!! Fornendo informazioni, progettando attività e studiando il territorio e i documenti ad esso legati. Se, oltre a tesserarti, hai anche voglia di dare una mano per proporre, organizzare e realizzare attività, sei la persona che stiamo cercando: abbiamo bisogno anche del tuo aiuto, delle tue idee e dei tuoi suggerimenti. Le attività programmate per quest’anno sono davvero tante e interessanti, speriamo anche di avere una nostra nuova sede sociale.
Il 2024 ci vedrà impegnati in particolare per:
Perché tesserarsi?
Essere socio della Pro Loco favorirà la conoscenza e lo sviluppo della tua città ti permetterà di mettere a servizio della comunità attitudini, passioni e competenze. Entra a far parte della famiglia delle Pro Loco d’Italia, un grande mondo composto da oltre 6300 Associazioni e 500.000 associati in tutta Italia.
Le Pro Loco sono storia, turismo e cultura e ci permettono di scoprire i luoghi più suggestivi e gli itinerari più emozionanti della nostra splendida penisola, e ti garantirà sconti per molte iniziative.
Con la tessera del socio U.N.P.L.I. avrai tanti vantaggi, risparmi e occasioni; sul sito http://tesseradelsocio.it sono elencate tutte le convenzioni nazionali e locali divise per categoria e regione. Allora vieni in Pro Loco e tesserati!
Le Pro Loco APS sono associazioni di promozione sociale, formate da volontari che si impegnano per promuovere e valorizzare il territorio in cui vivono, i suoi prodotti e le sue bellezze, svolgendo un ruolo importante, soprattutto nei piccoli centri, dal punto di vista turistico, sociale ed economico. Sono una grande risorsa per il paese, fatte di volontariato, passione e voglia di stare insieme e far crescere il territorio e la nostra comunità. Se ritieni di avere queste caratteristiche, cosa aspetti, iscriviti anche tu!
Contatta personalmente un consigliere o stampa e compila i moduli ed inviali agli indirizzi dell’associazione e sarai contattato.
Scarica i moduli per diventare nostro socio: ADESIONE – INFORMATIVA
Scarica lo STATUTO.
Contattaci:
prolocoacquedolci@gmail.com
prolocoacquedolci@pec.it
motivato/a.
]]>COMUNICATO – Pro Loco Acquedolci APS, nuovo Consiglio Direttivo
Il nuovo Consiglio Direttivo della pro loco di Acquedolci, eletto dall’assemblea dei soci il 28 aprile, nella sua prima seduta dell’10 maggio ha determinato l’assegnazione delle cariche sociali.
Per la terza volta il Presidente è ancora Ciro Artale.
“La Legge sul Terzo Settore ha impegnato anche le pro loco nell’adeguamento di Statuto, nell’iscrizione al Registro Unico Nazionale, con tutto quello che concerne e in corsi di aggiornamento e formazione, ma ha anche aperto a nuove prospettive e possibilità che già nel prossimo futuro potranno permettere di realizzare progetti e iniziative fino ad oggi considerati alla pari dei sogni, vista la difficoltà di reperire risorse economiche; fare associazionismo è complicato, sia perché occorrono capacità e formazione sia perché coinvolgere le persone e i giovani in particolare è sempre più difficile. Nonostante questo la nostra associazione è in crescita e mira a realizzare iniziative per la promozione e la valorizzazione del nostro comune anche attraverso la scoperta e conservazione della sua storia e dei beni materiali e immateriali della nostra comunità.Un occhio di riguardo lo avremo per i più giovani. Abbiamo in itinere la realizzazione del “Museo del gettone” e miriamo ad aprire uno sportello di Informazione e Accompagnamento Turistico e a collaborare, attraverso la sottoscrizione di appositi protocolli d’intesa, con gli Enti del territorio; l’UNPLI, alla quale apparteniamo, ha già sottoscritto protocolli con l’ANCI e l’Ente Parco dei Nebrodi, noi speriamo di farlo al più presto col Parco Archeologico del Tindari e il Comune“.
Un ringraziamento per il cammino condiviso va ai consiglieri uscenti Vincenzo Campisi e Giuseppe D’Angelo.
Il nuovo Consiglio d’Amministrazione della Pro Loco rimarrà in carica fino ad aprile del 2027:
PRESIDENTE: Ciro Artale
VICE PRESIDENTE: Alfio Manasseri
TESORIERE: Riccardo Plantemoli
SEGRETARIO: Cristian Armao
CONSIGLIERI: Salvatore Gerbino, Angelica Parollo e Francesco Sciambarella.
In previsione della prossima campagna di scavi il professore Luca Sìneo e i suoi collaboratori esporranno gli importanti risultati delle ultime ricerche da loro ottenuti nelle campagne precedenti.
Occorre parlare della nostra grotta, innanzi tutto ad Acquedolci, perché il patrimonio storico-culturale che abbiamo la fortuna di ospitare ha potenzialità ancora sconosciute.
Ringraziamo tutte le istituzioni, enti e associazioni contattate per l’interesse dimostrato, certi che in futuro le occasioni per fare bene e insieme non mancheranno.
Vi aspettiamo numerosi, le interessanti novità vi appagheranno e compenseranno del tempo che dedicherete alla conoscenza del nostro territorio e della sua storia.
Sarà possibile seguire il convegno su ZOOM con le seguenti credenziali:
ID riunione 849 4592 9675 – Passcode 966162
In concomitanza si svolgerà il raduno “Classiche dei Nebrodi”, occasione per ammirare un bel numero di auto storiche e visitare la grotta in compagnia dei loro equipaggi.
RASSEGNA STAMPA:
L’approfondimento di ONDA TV – Bella Sicilia:
Qualunque momento è il momento giusto per iscriversi alla Pro Loco!
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La PRO LOCO ACQUEDOLCI APS fa parte del Terzo settore ed è iscritta al Registro Nazionale (R.U.N.T.S.); opera sul territorio con due obiettivi principali:
• Valorizzazione del patrimonio artistico-culturale del nostro centro
• Organizzazione di eventi che favoriscano l’aggregazione sociale
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PROMUOVE il nostro paese in tutte le sue espressioni (artistiche, storiche,culturali, enogastronomiche, naturalistiche, sociali …)
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UNISCE creando occasioni di incontro e di collaborazione tra le persone e le associazioni.
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LA PRO LOCO LAVORA TUTTO L’ANNO!!! Fornendo informazioni, progettando attività e studiando il territorio e i documenti ad esso legati. Se, oltre a tesserarti, hai anche voglia di dare una mano per proporre, organizzare e realizzare attività, sei la persona che stiamo cercando: abbiamo bisogno anche del tuo aiuto, delle tue idee e dei tuoi suggerimenti. Le attività programmate per quest’anno sono davvero tante e interessanti, speriamo anche di avere una nostra nuova sede sociale.
Perché tesserarsi?
Essere socio della Pro Loco favorirà la conoscenza e lo sviluppo della tua città ti permetterà di mettere a servizio della comunità attitudini, passioni e competenze. Entra a far parte della famiglia delle Pro Loco d’Italia, un grande mondo composto da oltre 6300 Associazioni e 500.000 associati in tutta Italia.
Le Pro Loco sono storia, turismo e cultura e ci permettono di scoprire i luoghi più suggestivi e gli itinerari più emozionanti della nostra splendida penisola, e ti garantirà sconti per molte iniziative.
Con la tessera del socio U.N.P.L.I. avrai tanti vantaggi, risparmi e occasioni; sul sito http://tesseradelsocio.it sono elencate tutte le convenzioni nazionali e locali divise per categoria e regione. Allora vieni in Pro Loco e tesserati!
Le Pro Loco APS sono associazioni di promozione sociale, formate da volontari che si impegnano per promuovere e valorizzare il territorio in cui vivono, i suoi prodotti e le sue bellezze, svolgendo un ruolo importante, soprattutto nei piccoli centri, dal punto di vista turistico, sociale ed economico. Sono una grande risorsa per il paese, fatte di volontariato, passione e voglia di stare insieme e far crescere il territorio e la nostra comunità. Se ritieni di avere queste caratteristiche, cosa aspetti, iscriviti anche tu!
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]]>Per i gruppi numerosi è gradito un preavviso.
Per ulteriori informazioni o particolari esigenze contattateci.
Il 10 luglio prossimo l’UNPLI celebra la Giornata Nazionale delle Pro Loco italiane.
La Giornata nasce dal desiderio di dare voce alle Pro Loco e condividerne i valori e i principi, con l’obiettivo di promuovere le iniziative e le attività che svolgono le Pro Loco in tutta Italia.
Anche le Pro Loco sono state messe a dura prova in questi lunghi e complessi mesi, ma non si sono mai persi d’animo. Ripartire non è semplice, non perché manchino idee e proposte, ma i timori, le restrizioni e tutte le difficoltà legate al coinvolgimento di soci, comunità e turisti rendono più difficile organizzare manifestazioni e attività
La nostra Pro Loco ha deciso di ripartire aderendo alla Giornata nazionale delle Pro Loco organizzando due momenti di incontro per fare memoria della storia della comunità e della nostra associazione. L’obiettivo è quello di ricordare, attraverso documenti, le figure di nostri concittadini che hanno segnato la storia recente di Acquedolci e festeggiare con i soci fondatori della nostra associazione l’adeguamento dello Statuto alla normativa del Terzo Settore.
Il programma degli eventi sarà il seguente:
ore 10.30 sede Società Operaia di Mutuo Soccorso “La Marina”
Consegna della copia del documento redatto in occasione della festa del 12 novembre 1969, giorno della votazione all’ARS dell’autonomia del nostro Comune.
Con spirito goliardico (per iniziativa di Nuccio Rubino e Antonietta Ciccia) un semplice foglio di carta, fuori formato trovato probabilmente sul posto, servì per esprimere a parole lo spirito, carico di soddisfazione e felicità, con il quale molti cittadini di Acquedolci di ogni età vollero festeggiare la notizia dell’approvazione all’ARS dell’autonomia di Acquedolci. Ringraziamo l’amica Nunziatina Spina sia per aver custodito il documento, sia per averlo voluto condividere, riconoscendo nello stesso un valore per la memoria della nostra comunità, e per questo chiedendo alla nostra pro loco di trovare un’occasione per farlo: siamo lusingati. L’occasione ci permetterà di ricordare il nostro arciprete Di Paci, fautore dell’autonomia, nel 50° della morte.
ore 11.30 Sala Consiliare Comunale
Consiglio direttivo straordinario della Pro Loco per consegna attestati ai soci fondatori dell’associazione.
I cambiamenti che stanno coinvolgendo la nostra associazione con l’adeguamento alle norme del Terzo Settore, segneranno un nuovo inizio. Per questo motivo il Consiglio Direttivo, su proposta del Presidente ha deciso di ricordare in maniera solenne la nascita del nostro Sodalizio, avvenuto il 2 giugno 1989 e tutti i protagonisti a diverso titolo di quel momento (soci fondatori e revisori dei conti).
In una seduta speciale del nostro Consiglio direttivo consegneremo degli attestati di benemerenza, per ricordare con i primi soci l’inizio di questa avventura. Alla riunione abbiamo invitato le massime autorità politiche Comunali, anche loro all’inizio di un nuovo mandato; la Pro Loco opera attivamente a favore dello sviluppo sociale e turistico di Acquedolci e svolge la propria attività ai fini della promozione turistica e della valorizzazione delle realtà e delle potenzialità naturalistiche, culturali, storiche e sociali del territorio; solo col confronto e la collaborazione potremo raggiungere obiettivi comuni e condivisi.
I soci fondatori che ininterrottamente hanno continuato a far parte della nostra Pro Loco saranno nominati dal Consiglio Soci Benemeriti, per meriti particolari acquisiti a favore dell’Associazione, come indicato nel nuovo Statuto.
Ecco l’elenco dei soci fondatori, presente anche nell’atto costitutivo del 1989.
Saranno nominati SOCI BENEMERITI:
NICOSIA SALVATORE (Primo Presidente)
CARCIONE CALOGERO (Secondo Presidente)
SANTORO GIUSEPPE (Primo Segretario)
BOLLACI SALVATORE (alla memoria) (Consigliere)
GIAMBÒ ROSARIA
MARCHESE PAOLO
anche l’attuale Socio Onorario DI GIORGIO ALFONSO sarà nominato socio benemerito, perché la figura di socio onorario non è contemplata dal nuovo Statuto.
Riceveranno l’Attestato di Benemerenza
Soci fondatori:
BONFIGLIO Giuseppe (Primo Vice Presidente)
BONFIGLIO Ugo Matteo (alla memoria)
CIANCIO Calogero
LUPICA Calogero
LO TURCO Massimo
NIOSI Gianfranco (Consigliere)
OIENI Paolo Gaetano (alla memoria)
Revisori dei Conti: CARROCCIO Marianna Livia, GIAMBÒ Maria, TAORMINA Vincenzo (memoria).
___________________________________________________________________________
Stamattina, 10 luglio 2022, i soci della Pro Loco si sono dati appuntamento presso la sede della Società Operaia di Mutuo Soccorso “La Marina”. L’associazione ha aderito alla Giornata Nazionale delle Pro Loco d’Italia promossa dall’UNPLI e ha colto l’occasione per vivere un momento di memoria storica per la nostra comunità. Grazie alla generosità e all’attenzione delle sorelle Spina, che hanno fino ad oggi custodito e adesso condiviso un documento legato all’autonomia del nostro Comune, la Pro Loco ha con loro concordato di donare una copia alla Società Operaia, così come espresso desiderio riportato in calce allo stesso. La sera del 12 novembre 1969, dopo l’approvazione all’ARS della Legge che consentiva ad Acquedolci di divenire autonomo, di ritorno da Palermo il Comitato dell’Autonomia e i concittadini che li avevano accompagnati decisero di festeggiare al Globus di Torre del Lauro; furono raggiunti da altri amici da Acquedolci. Due giovani (Nuccio Rubino e Antonietta Ciccia) reperito un foglio di fortuna lo adornarono a mo’ di pergamena e goliardicamente stesero un verbale di fine serata (ore 23.00) ed ebbero la brillante idea di far firmare tutti i presenti; affidarono la custodia al presidente della Società Operaia e a distanza di 53 anni il documento fa ora bella vista sulle pareti della loro sede. Un pensiero speciale è stato dedicato dal nostro Presidente Ciro Artale al primo firmatario del documento, l’arc. Antonino Di Paci, alla guida del Comitato dell’Autonomia e benefattore della nostra comunità, perché era il 50° anniversario della morte, avvenuta il 9 luglio 1972.
Il presidente della Società Operaia Massimo Princiotta ha ringraziato per l’affetto e l’attenzione a loro riservate e ha proposto la collaborazione delle due associazioni, anche per ricostruire la lunga storia della Società Operaia (fondata nel 1911) attraverso i documenti conservati nel loro archivio per arricchire le pareti della loro bella sede. Un bel momento, che segna un nuovo inizio per entrambi i sodalizi dopo il lungo stop dovuto alla pandemia.
La dottoressa Nunziatina Spina ha voluto sottolineare il fatto che questo nuovo inizio simbolicamente vale anche per i nostri rappresentanti politici, proprio al principio di un nuovo mandato amministrativo, ricordando lo spirito con il quale tutti insieme nel 1969 si festeggiava l’Autonomia.
Il Presidente del Consiglio Giuseppe Salerno ha portato i saluti dell’Amministrazione e ha lodato l’iniziativa auspicando la collaborazione e l’apporto di tutti nelle sedi opportune e con i giusti strumenti nelle scelte e nei momenti appositamente concordati o previsti, in maniera che ognuno possa contribuire alla crescita sociale e culturale del nostro centro.
Un momento conviviale con le foto di rito hanno concluso questo primo appuntamento della giornata.
Il secondo momento si è svolto nella Sala Consiliare del Comune di Acquedolci.
La volontà di ricordare il momento della nascita della Pro Loco di Acquedolci con i soci fondatori era forte da un po’ di anni, in particolare da quando non si è più riusciti ad organizzare la cena sociale.
Il Consiglio Direttivo dell’Associazione in seduta straordinaria ha così accolto nel salotto della nostra comunità i soci fondatori e i loro parenti. Il presidente ha accolto tutti i convenuti raccontando la storia della nascita della nostra associazione e i tentativi precedenti al 1989 e il momento importante di cambiamenti che sta vivendo in questi anni, ha così ceduto il microfono al padrone di casa, il Presidente del Consiglio Comunale da poco insediatosi, il prof. Giuseppe Salerno, che ha salutato i presenti ricordando come l’Associazione è stata importante nei momenti ricreativi, culturali e sociali del nostro comune, adattando le proposte ai momenti storici e alle necessità di concittadini e turisti.
Si è quindi proceduto alla consegna degli attestati di benemerenza ai soci fondatori e degli attestati di Socio Benemerito a quelli che ad oggi continuano ininterrottamente ad aderire all’associazione.
Purtroppo tre dei soci fondatori non sono più tra noi, e a loro è andato un particolare e affettuoso pensiero, ricordandone le doti e il loro impegno verso l’associazione. Tutti i soci, anche quelli che purtroppo non sono potuti essere presenti, hanno speso parole di stima e gratitudine verso l’associazione, ringraziando per il graditissimo e inaspettato pensiero a loro rivolto.
I SOCI FONDATORI del 2 giugno 1989
NICOSIA Salvatore (Presidente)
BONFIGLIO Giuseppe (Vice Presidente)
SANTORO Giuseppe (Segretario)
BOLLACI Salvatore (Consigliere)
NIOSI Gianfranco (Consigliere)
BONFIGLIO Ugo Matteo
CARCIONE Calogero (secondo Presidente dell’associazione)
CIANCIO Calogero
GIAMBÒ Rosaria
LO TURCO Massimo
LUPICA Calogero
MARCHESE Paolo
OIENI Paolo Gaetano
di Alfonso Di Giorgio
del 17 aprile 2012
Lo stemma, quale contrassegno di una famiglia, come si usava un tempo, o di una Comunità, vuole esserne l’emblema figurativo. Come, infatti, la quercia è l’immagine della forza, così per una Comunità si cerca di cogliere il segno più rappresentativo della sua storia e di quelle che sono anche le sue aspirazioni per il futuro, perché in esso possano confluire le scelte più importanti. Il Gonfalone è come la bandiera o lo stendardo di una Città, che in sé riproduce lo Stemma quale elemento centrale, derivandone una sua peculiare caratteristica.
Sono state queste le motivazioni di fondo a cui mi sono ispirato, quando, tra il 1979 e il 1980, nella mia qualità anche di Assessore alla Pubblica Istruzione e ai Beni Culturali, confortato dal pieno mandato ricevuto sia da parte del Sindaco che dall’intera Giunta Municipale del tempo, ho posto mano alla mia figurazione dello Stemma. A onor del vero, la mia idea partiva da lontano, da quando, negli anni ’60, prima ancora, cioè, che Acquedolci divenisse Comune autonomo, facendo il pendolare tra Acquedolci e Palermo, dove ero docente di ruolo nelle scuole elementari, ebbi modo di conoscere Emanuele Flaccomio, che prendeva il treno a Cefalù e che era il Bibliotecario della Facoltà di Agraria dell’Università di Palermo. Fu così che, tra le tante cose che andava scrivendo, un giorno mi diede la fotocopia di un suo articolo, che ancora custodisco gelosamente, pubblicato da “La Sicilia del Popolo” il 4 Luglio 1957, e che a caratteri cubitali aveva questo titolo: “Acquedolci è simbolo d’una industria che onorò e arricchì la Sicilia”, con un sottotitolo abbastanza esplicativo: “È di casa la canna da zucchero sin dalla dominazione araba”.
E questo, anche perché Emanuele Flaccomio era convinto che il nome di Acquedolci fosse derivato, come scriveva nello stesso articolo, “dalle acque che scorrevano nelle sue vicinanze e che divenivano dolciastre con gli avanzi delle “cannamelle” che vi si buttavano, dopo l’estrazione dello zucchero”. Ma non è così. Come ho evidenziato nel mio scritto “Ricordare per andare avanti”, inserito nell’Opuscolo celebrativo del Quarantennale dell’autonomia, del 2009, il toponimo di Acquedolci è legato alla storia dell’antica Roma, perché sulla “Consolare romana”, che transitava allora lungo l’attuale linea ferrata, e che non si volle salvaguardare (uno scempio vero e proprio, a danno di un bene culturale enorme!), la nostra località era luogo di sosta, grazie alle sue acque dolcissime, quelle quasi certamente dell’odierna “Favara”, che, attraverso un canale naturale, arrivavano fino a mare, scorrendo in prossimità dell’attuale “Castello Cupane”. Ciò è dimostrato anche dal fatto che lo stesso Cicerone, nel Libro VII delle Verrine, riferisce del porto commerciale e militare di Apollonia, che sorgeva in quel tempo sul “Monte Vecchio”, nel territorio dell’odierno paese di San Fratello, quale base per le imbarcazioni che difendevano la costa: il “Carricatorum Aquarium Dulcium”. E qui è il caso di citare anche Diodoro Siculo, che così designa il nostro sito: “Aque Dolci cum taberna hospitatoria”.
In questo contesto, però, se è vero, come è vero, che la storia ha un senso e che la storia siamo noi, nella considerazione, principalmente, che il nome di Acquedolci è connesso a un lavoro produttivo quale fu, per diversi secoli, quello della canna da zucchero, mi sembrò ovvio che nello Stemma venisse rappresentato. Una Comunità è chiamata a custodire la sua memoria, attraverso quell’opera di “coscientizzazione”, che ci consente di conoscere il passato, capire il presente e sapere progettare il futuro. Il richiamo della canna, quindi, ha un suo valore di attualità e di dinamismo etnostorico, perché ogni generazione è chiamata a interrogarsi in ordine alla propria realizzazione, attraverso il lavoro, che diviene non solo mezzo di sussistenza, ma come enunciato o connotazione di una dimensione essenziale dell’essere in uno specifico contesto storico.
In questo senso, la grafica dello stemma evidenzia delle parole non scritte, che per l’occasione desidero fare emergere. La prima parola è il LAVORO, fondamentale per coltivare le piante e renderle produttive; la seconda è il PROGRESSO, connesso e conseguenziale allo stesso lavoro, come premessa per la convivenza civile. Le canne rigogliose e fiorite alludono al buon lavoro condotto per portarle a quello stato, da cui discende la produttività dello zucchero, sia come qualità sia come quantità; e tutto ciò, di per sé, porta ricchezza e, quindi, anche progresso. Inoltre, nella simbologia della grafica dello stemma, e non a caso, emergono altre parole non scritte; e, tra queste, una in particolare: ed è la LIBERTÀ, rappresentata dal mare. È il Mar Tirreno che lambisce il territorio di Acquedolci, ma il mare è anche il simbolo della Libertà. E qui mi vengono in mente le parole sublimi di Charles Baudelaire, che, nella sua Opera “I fiori del male”, così parla del mare: “Sempre il mare, uomo libero, amerai! Perché il mare è il tuo specchio: tu contempli nell’infinito svolgersi dell’onda l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito, non meno amaro”. La Libertà: è il “maggior dono”, come dice Dante Alighieri, che rispecchia Dio stesso ed è il presupposto dell’amore; Dio, infatti, ci ha fatti liberi per poterlo amare, per amarci tra di noi e per amare la stessa natura, e cantarla. Infatti, un detto di Filostrato dice che “L’usignolo in gabbia non canta”. Il lembo di mare, quindi, con tanto azzurro, ha questa particolare connotazione.
E poi, perché le canne sono quattro? Anche questa non è stata una scelta casuale; perché sono quattro i punti cardinali: Nord, Sud, Est, Ovest. Nel senso che lo zucchero, ricavato dalle canne, è un alimento essenziale nella vita di tutti gli uomini del mondo, in tutte le sue direzioni, senza alcuna differenza. È un alimento primario e, come tale, un ottimo strumento di commercio e di ricchezza, a cui è anche connesso il benessere della popolazione che lo produce. Lo zucchero da canna fu davvero per diversi secoli, per i nostri antenati del “Villaggio delle Acque Dolci”, la principale fonte di sostentamento e di commercio, da cui poi si irradiava in tutte le direzioni del territorio isolano e dello stesso bacino del Mediterraneo: i “pani di zucchero di Acquedolci” erano rinomati al Nord come al Sud, in Oriente come in Occidente.
Ma le canne sono ancora quattro per un’altra ragione simbolica e culturale, perché sono quattro le virtù cardinali, e, cioè: “PRUDENZA, GIUSTIZIA, FORTEZZA, TEMPERANZA”. La cui acquisizione, che costituisce un travaglio permanente, è nel segno del perfezionamento dell’uomo, premessa essenziale per la stessa vita comunitaria, non nel senso dell’umanesimo greco, ma principalmente come umanesimo cristiano, nel senso che Dio vuole unire gli uomini a sé e tra di loro, e questa comunicazione esige il loro progresso morale. Ed è, questo, un progresso dinamico, che investe tutte le generazioni, ma che riguarda singolarmente ciascuno di noi, in ogni momento della propria vita, tenendo presente che io non sono libero, ma divengo libero, nella misura in cui mi riconosco nel valore assoluto di una norma. Ieri, oggi, sempre! Il nostro modello di cristiani, in questo senso, è il Vangelo, ma mi piace citare anche Cicerone, maestro di democrazia: “Servi Legis sumus ut liberi possimus esse”, che in maniera libera e forte così traduco: “Schiavi della Legge per essere liberi”! L’uomo è fantasia e creatività: ecco perché le canne dello Stemma e del Gonfalone sono quattro!
Nell’analisi della grafica del nostro Stemma, c’è ancora un ulteriore elemento da dovere spiegare ed è dato dal fondo dorato retrostante le canne. Non è un riempitivo di colore per fare emergere le canne; vuole, invece, simboleggiare il sole, da cui discende ogni forma di vita: la nostra stessa vita, come quella delle natura e, quindi, anche delle canne da zucchero. È la luce che ci consente il vedere, è il fondo dorato di tutte le meraviglie esistenti, dal prato fiorito agli imponenti cedri del Libano, dalle distese marine al soffio impetuoso del vento, che è il respiro di Dio. Senza luce non c’è vita, né splende la natura, né cantano gli uccelli. È l’ “ALME SOL”, è il “Sole fecondo”, datore della vita, che “col carro ardente porti e nascondi il giorno, e nuovo e antico rinasci” (“Alme sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem nasceris”), come lo canta nel celebre “CARMEN SAECULARE” Quinto Orazio Flacco.
Il tratto dorato posto sullo sfondo della Stemma allude anche al rapporto tra il sole e la natura: esso la illumina, la protegge e le dà la vita, ma non la brucia. Che meraviglia! Il sole è umile, come è Dio con gli uomini. La luce non invadente, quasi secondaria, vuole essere, nello stesso tempo, figura dell’alba, come inizio di un nuovo giorno. Quando giunge la sera e incalza la notte, la speranza e tutte le nostre attese sono riposte nel ritorno dell’alba. E l’ALBA, come tale, la considero quale acronimo di alcune parole chiave: ALZATI, LAVORA, BENEDICI, ALLEATI.
A come ALZATI: perché non possiamo stare con le mani in mano; siamo stati chiamati, nella libertà, ad essere tutti protagonisti nel proprio tempo e ad essere partecipi della creazione, che tuttora è in corso di svolgimento, usando il discernimento, posti come davanti a un bivio, di optare sempre per il bene.
L come LAVORA: Il lavoro non è solo mezzo di sussistenza, esso coincide principalmente con la propria realizzazione, nel sapere accettare la vita, secondo quanto è scritto nella Bibbia, principalmente come diuturno combattimento, per il trionfo del bene e del bello, della luce sulle tenebre.
B come BENEDICI: per dire che dobbiamo rendere lode a Dio, e ringraziarLo, per il dono della vita, per il ruolo attivo che ci riserva nel tempo presente e per la nostra destinazione verso l’eternità, come trionfo della “Gerusalemme celeste”, nella prospettiva di “Cieli Nuovi e Terra Nuova”. Che progetto! Tuttavia, non ce ne rendiamo conto e non eleviamo a Lui la nostra lode. È Dio, è soltanto Lui, rivelatosi per mezzo di Gesù Cristo e con la potenza dello Spirito Santo, il Creatore, il Grande Architetto dell’Universo, l’unico e vero Artefice della storia! È, questa, la Buona Notizia, il Vangelo, cioè, la premura della Chiesa, che spesso disattendiamo, anche se non mancano richiami forti e incisivi come quello di Dante Alighieri, che qui riporto: “Considerate la vostra semenza: – fatti non foste a viver come bruti, – ma per seguir virtute e canoscenza”.
A come ALLEATI. L’unione, cioè, fa la forza, adoperandoci per essere tra tanti una cosa sola, con spirito di fraternità. In questo senso, da idealista, ho latinizzato un mio motto come sogno da realizzare, recuperando in parte un pensiero di Cicerone “E pluribus unum”. E, cioè: “Unus orbis, unum somnium: e pluribus unum”,“Un solo mondo, un solo sogno: essere tra tanti una cosa sola”. Oltretutto, la legge che governa la stessa vita è una legge di socialità. Una qualsiasi struttura vivente in natura sussiste, rimane in vita, cioè, solo se le parti la costituiscono interagiscono tra di loro in un rapporto armonico. Una grande lezione per noi, come si legge nella stessa Bibbia: “I cieli narrano la gloria di Dio e ne predicano la giustizia”. In questo contesto, mi sembra opportuno citare anche il grande spiritualista John Donne, la cui riflessione, che qui riprendo, mi sembra quanto mai opportuna e calzante: “Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità: e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te!”. Questa, quindi, la mia particolare lettura del fondo dorato dello Stemma, connessa alla parola ALBA, come tale e come acronimo.
In sostanza, il fondo dorato rispecchia la luce, che è poi il primo atto di Dio creatore ed ha, come tale, una forte connotazione di trascendenza, nel senso che il suo riflesso luminoso allude a un segno visibile del Dio invisibile, come si legge ancora nella Bibbia: “Deus lux est et lucem inhabitat inacessibilem”; e, cioè: “Dio è luce e abita una luce inaccessibile”. Nella luce, per di più, c’è un richiamo dell’arcobaleno, universalmente riconosciuto come segno di pace, oltre a rappresentare la storia di un’alleanza tra Dio e Noè, e, quindi, con tutta l’umanità, come patto d’amore, di prosperità e di pace. Perciò, dalla grafica dello Stemma emergono altre tre parole non scritte, in aggiunta a quelle già evidenziate, rappresentate, appunto, dal fondo dorato, e sono queste: AMORE, PROSPERITÀ E PACE.
Ora, per un fatto conoscitivo e culturale, vorrei aggiungere questo ulteriore approfondimento. Come è ben noto, l’arcobaleno, sul piano più strettamente scientifico, rappresenta i colori dello spettro solare, che sono sette. E qui vorrei sottolineare che, con riferimento alla Bibbia, come il tre e il dodici, anche il sette è un altro numero profetico: vuole esprimere la pienezza, la totalità. E poi, guarda caso, sono pure sette le note musicali, le virtù cardinali e teologali, i sette sacramenti, le sette opere di misericordia corporale, le sette opere di misericordia spirituale e, in modo particolare, i sette Doni dello Spirito Santo. Proprio con riferimento allo Spirito Santo, che, per la nostra fede cristiana, è il nostro Paraclito, il nostro Consolatore, per dire che nei sette colori dell’arcobaleno si riflettono i suoi sette doni: Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza e Timor di Dio.
Debbo annotare, per la verità, che questo mio scritto nasce da una circostanza fortuita, qual è stata l’iniziativa di fare conoscere due culture agrarie, simbolo del territorio di Acquedolci, quelle, cioè, della canna da zucchero e dell’agave sisalana. Iniziativa, questa, davvero encomiabile, curata, con impareggiabile entusiasmo, da Rosario Paolo Salanitro, svoltasi l’11 febbraio 2011, con il coinvolgimento delle scuole locali, Elementare e Media, e dell’Istituto Agrario di Capo d’Orlando, fruendo del più ampio sostegno da parte dello stesso Sindaco di Acquedolci, Avv. Ciro Gallo. In particolare, nella predetta giornata, ci fu una tavola rotonda sulle due colture, molto interessante e partecipata, svoltasi nella Sala consiliare del Comune. Successivamente, nella Villa antistante il Municipio, furono messe a dimora alcune piantine di agave sisalana e di canna da zucchero.
Questo evento fu per me di grande stimolo a scrivere la storia del nostro stemma comunale. Così, a distanza di tanti anni, con questo documento, lascio una memoria scritta, come fatto anche doveroso, per dire di quella che fu un’ideazione, ma anche una scelta, e a cura dello “Studio Araldico” di Genova e della stessa Amministrazione comunale del tempo, senza dover sottendere un fatto essenziale per il mio credo culturale: è l’uomo che propone, ma è Dio che dispone. È Dio il padrone della storia! Non dimentichiamolo! Quando esce l’acqua dal rubinetto, se il rubinetto potesse parlare, direbbe che l’acqua è sua; ma non è vero! Essa proviene sempre da una sorgente. E così sono tutte le nostre opere! Senza quella sorgente, eterna e invisibile, che è il soffio di Dio in noi, la nostra spiritualità, la nostra capacità, cioè, di intendere e di volere, niente mai avremmo potuto realizzare di tutto quello che siamo e progettiamo. Da questo emerge che se siamo in grado di esprimerci antropomorficamente (in termini umani) di Dio, ciò è connesso al dono stesso di Dio, che ci ha fatti teomorfi, capaci e desiderosi, cioè, di Lui e del suo amore.
Eppure, non sappiamo mai dire grazie! In una inversione di rotta, per uscire da una dimensione materialistica della vita, in una presa di coscienza che tutto è dono di Dio, come la vita e le nostre stesse opere, mi auguro che in tutto il mondo e tra di noi maturi una tendenza nuova come “Civiltà dell’amore”, con spirito di ringraziamento verso Dio e di rapporti costruttivi e amorevoli tra noi. E in questo senso, tra i tanti motti che ho lasciato all’attenzione delle nuove generazioni, come è dato vedere all’ingresso della Sala consiliare del nostro Municipio, che ho fatto incidere su medaglioni di marmo, in occasione del trentennale e del quarantennale dell’Autonomia del Comune di Acquedolci, oltre quello di Cicerone che ho citato, per il cinquantennale, per chi ci sarà, vorrei che fosse inciso, sempre su marmo, quest’altro motto: “Unus orbis, unum somnium: e pluribus unum”, di cui ho già riferito.
A corollario di questo scritto, desidero aggiungere qualche altra annotazione. Intanto, il nome stesso di Acquedolci, sorto in epoca romana, come già detto, ha di per sé un significato quasi profetico e beneaugurante, perché l’acqua è la fonte stessa della vita e poi, se vi si aggiunge la dolcezza, non c’è proprio niente di meglio. Con riferimento a tutto ciò, è da rimarcare che l’acqua che sgorga dalla roccia, con riferimento alla storia di Mosè, allude a Gesù Cristo, che per noi cristiani – e ne siamo orgogliosi – è l’acqua viva discesa dal cielo, come fonte della Grazia, che disseta in eterno. E guarda caso, le nostre acque e, in aggiunta, dolci, provengono dalla Favara (nome di origine araba che significa “sorgente”) e sgorgano proprio dal monte Castellaro, in prossimità della Grotta di San Teodoro. Possiamo, quindi, considerarci fortunati di poter legare le nostre origini e la nostra appartenenza alle acque sgorgate dal Monte, al bel nome di Acquedolci.
Altro elemento che vorrei sottolineare in ordine alla storia dello Stemma è dato dal fatto che le quattro canne, simbolo delle virtù cardinali, vogliono essere di grande richiamo nell’oggi di ogni generazione, perché una cittadinanza può essere dinamica, laboriosa, feconda, soltanto se ha una grande forza morale, che discende proprio dalla pratica della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza, nella libertà e nell’esercizio della democrazia. Così soltanto, nella conduzione della vita
democratica, per il governo del paese, possono crearsi le premesse perché tra amministrati e amministratori si stabilisca un attivismo bilaterale, quanto mai salutare, al punto che i cittadini non chiedono agli amministratori ciò che essi possono fare per loro, ma ciò che i cittadini stessi possono fare per gli amministratori. È una presa di coscienza quanto mai importante, anche perché ciascuno di noi, in democrazia, deve considerarsi come un elemento di un ingranaggio. Infatti, se in un orologio si toglie anche la vite più piccola, l’orologio si blocca e non funziona più. Da tutto ciò deriva una parola chiave ed è questa: “coscientizzazione”!
Prendere coscienza della nostra condizione esistenziale, per capire cosa siamo, da dove veniamo e dove andiamo, e, quindi, della nostra partecipazione alla vita democratica, nell’assunzione di un principio, a cui, nel mio piccolo, mi sono sempre ispirato, anche nel tempo in cui sono stato partecipe dell’amministrazione di Acquedolci. Il principio morale è questo: delle cose mie private sono proprietario, delle cose pubbliche sono comproprietario; ed è questa la molla che ci fa partecipi della vita attiva di una Comunità, come sanno fare meglio di noi, anche se istintivamente, le api e le formiche. Ma l’uomo è qualcosa di più, solo se si fa guidare, nell’esercizio della sua libertà, da quella sorgente di luce, di vita, di forza, che proviene da Dio, che noi abbiamo conosciuto per mezzo di Gesù Cristo! La sua luce, poi, illumina la nostra mente e la sua forza sostiene i nostri passi! Un evento straordinario e storico, tanto è vero che abbiamo cominciato a contare gli anni dalla sua venuta, per un nuovo ordine dei secoli, come emerge, in chiave quasi profetica, dalla IV Ecloga delle Bucoliche di Virgilio. E noi, in questo senso, come giustamente annotava Benedetto Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Quindi: coscientizzazione e umanizzazione, come centralità dell’uomo e della sua coscienza.
In questo contesto, ritengo di dover rimarcare che, in ordine al dono della vita e della sua sacralità, dovremmo prendere sempre più consapevolezza che noi tutti siamo non padroni, ma soltanto usufruttuari e responsabili dei talenti ricevuti in gestione. Di questa riflessione, io stesso non posso che considerarmi il primo scolaro. Di fronte a questi richiami, cioè, che provengono dalla nostra intimità e dalla nostra coscienza, che è voce di Dio, non possiamo non essere che in posizione di ascolto. E, così, dovremmo imparare a capire e a sapere ripetere le parole di Samuele: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta”. Sempre: con grande umiltà e in ogni momento della nostra vita! E qui ripenso alle parole di Alessandro Manzoni, tratte da “I Promessi Sposi”: “Bisognerebbe pensare a far del bene, più che allo star bene; si finirebbe con lo star meglio”. Oltre tutto, la cupidigia umana non paga mai: si conclude in una disfatta! Provare per credere: il Vangelo ha sempre ragione!
Vorrei aggiungere ancora una nota, sempre per quanto riguarda la storia del nostro Stemma, ed è questa. A onor del vero, l’iniziativa per l’acquisizione dello Stemma era stata già avviata dall’Amministrazione comunale nel 1976, con nota del 14 ottobre, prot. n. 3768, a cui lo Studio Araldico di Genova rispondeva con altra nota del 2.12.1976, ma il tutto, successivamente, si arenava, quando, con nota del 17.5.1977, prot. n.2017, il Comune di Acquedolci comunicava di non disporre della somma richiesta per la concessione dello Stemma e del Gonfalone. Questione di scelte, in ordine anche all’impostazione di bilancio, per reperire i fondi necessari. Ma voglio esimermi da qualsiasi commento: le cose andarono così.
Si vede che doveva toccare a noi giovani amministratori del 1978 riproporre la questione dello Stemma e del Gonfalone, come, in apertura di questo scritto, ho ampiamente illustrato. Per la cronaca, la pratica, dopo l’atto deliberativo della Giunta – della quale facevo parte – del 7.10.1980, provvedimento n. 199, veniva inoltrata allo Studio Araldico di Genova con nota del 13.10.1980, prot. n. 6856, sottoscritta dal Sindaco del tempo, Dr. Giuseppe Terranova, a cui va ascritto anche il merito, per la sua apertura democratica, di avermi concesso la fiducia per la definizione di quella che poi è stata la nostra proposta, andata definitivamente in porto con Decreto del Presidente della Repubblica del 15.12.1981. Fu così che, per oscure coincidenze, che sfuggono a noi miseri mortali e cavernicoli, Acquedolci, al posto della solita aquila o della solita torre, come ritengo sarebbe stato e come è di tanti stemmi locali, nel riappropriarsi, con determinazione, della propria storia, scelse l’attuale Stemma, di cui potere andare orgogliosi, nei termini e nelle prospettive che ho cercato di evidenziare.
Fra l’altro, desidero aggiungere che non mi pare che le canne da zucchero siano riportate in altri stemmi comunali, non sono in Italia, ma neanche in quei Paesi tropicali dove ancora oggi esse si coltivano per l’estrazione dello zucchero. Acquedolci, con questa sua scelta ha onorato non solo la sua storia passata, ma quella dell’intera Sicilia, nella considerazione che questa coltura fu ampiamente diffusa su tutto il nostro territorio isolano. Lo storico Ugo Falcando ecco quanto ci tramanda: “Se tu volgi lo sguardo, ti si offrirà grande estensione di canne meravigliose, le quali sono chiamate dagli abitanti col nome di “canne di miele”, dalla dolcezza del succo che contengono”.
La coltivazione delle canne da zucchero trovò, quindi, terreno fertile lungo le coste di tutta la Sicilia, persino a Palermo, nella sua rinomata “Conca d’oro”. A titolo informativo, tra i tanti feudatari siciliani dediti a questa coltivazione, ne vorrei citare soltanto due, territorialmente a noi vicini e famosi: Vincenzo Gallego del Feudo di Militello e Aldonza Larcan del Feudo di San Filadelfio, che si estendeva, quest’ultimo, da Capizzi, Cesarò e San Fratello sino al “Villaggio delle Acque Dolci”, nella zona dove ebbero la loro costruzione la “Torre” e il “Castello Cupane”, al centro della cosiddetta “Marina Vecchia”, cuore storico dell’odierna Acquedolci.
Una nota un po’ fuori sacco. Nel riprendere le carte del tempo per documentare la storia del nostro Stemma ho trovato anche una lettera, pervenuta al Comune il 7.10.1980, di una ragazza di dodici anni, a quel tempo, Angela Malaguti di Crevalcore (Bologna), che allora frequentava la II media del suo paese, la quale aveva l’hobby di collezionare gli Stemmi di ogni Comune e che chiedeva di avere una copia anche di quello di Acquedolci. Una richiesta interessante ed encomiabile, di per sé anche onerosa, perché la ragazza, come scriveva, era figlia di operai, a cui si rispondeva, da parte del Sindaco, che, a quella data, il Comune non disponeva ancora di uno Stemma, con riserva di inviarne una copia non appena il Comune ne sarebbe entrato in possesso.
Da quella data a quando il Comune ebbe il suo Stemma passò oltre un anno e ritengo che, a memoria, quella nota sia rimasta inevasa, per mera distrazione. Ora, a distanza di tanti anni, – e il fatto di per sé susciterebbe senz’altro stupore – si potrebbe anche soddisfare la predetta richiesta, con l’aggiunta di una copia della presente relazione, la cui dettagliata esposizione risponde anche a un desiderio conoscitivo della nostra storia. Non è mai troppo tardi! Meglio così! La richiesta della predetta ragazza è meritevole, nel nostro oggi, di tutta la nostra attenzione, perché essa costituisce un modello da dovere additare alle nuove generazioni, perché facciano altrettanto e perché possano amare sempre di più non soltanto la storia locale, ma anche quella di tutta l’Italia. Una ragione, questa, per cui ho ritenuto opportuno riprendere la storia della predetta lettera e inserirla in questa relazione.
Prima di chiudere, mi sia consentita un’ultima nota, come proposta operativa per il futuro di Acquedolci. E, in questo senso, non dimentichiamo, come ci ha insegnato Giovanni Falcone, che “I sogni camminano con le gambe degli uomini”, o, come amava ripetere Helder Camara, il rinomato Vescovo di Recife, che “Se io sogno da solo è solo un sogno, ma se siamo in tanti a sognare è la realtà che comincia a svilupparsi”. In questo senso, mi viene di pensare anche al Castello Cupane, con l’augurio che, finalmente, possa essere totalmente recuperato, per la sua più ampia utilizzazione come struttura socio–culturale polivalente, oltre che storica.
Qual è, dunque, la mia proposta? Potere scommettere, con l’apporto degli agricoltori locali, dopo alcuni secoli, sul rilancio della coltivazione della canna da zucchero ad Acquedolci, non tanto per l’estrazione dello zucchero, che non sarebbe più rispondente alla competizione sul piano dei mercati, quanto per il RHUM, l’acquavite che si ottiene dalla distillazione della melassa di canna da zucchero fermentata. È un idea! Con la prospettiva di poterlo commercializzare con i Paesi del Nord Europa, o, in particolare, con la Gran Bretagna, dove, con riferimento anche ai Paesi del COMMONWEALTH, il RHUM trova largo consumo. In questo caso, si potrebbe pensare anche a un gemellaggio con una cittadina del predetto Paese: mi viene in mente e proporrei PLYMOUTH, per la sua singolare storia marinara, legata soprattutto ai PADRI PELLEGRINI (Pilgrim Fathers), a cui va ascritto il merito di essere stati gli ispiratori dello “Stato di diritto” nel mondo, con il famoso documento del “CONTRATTO DEL MAYFLOWER” del 1620, a cominciare dagli Stati Uniti d’America, di cui sono stati i fondatori.
Un gemellaggio con Plymouth, quindi, sarebbe proprio di grande interesse, anche per approfondire da parte nostra la conoscenza della lingua inglese, divenuta ormai il codice di comunicazione tra tutti i popoli. Mi preme sottolineare che nel predetto contratto, per la prima volta, in assoluto, si sancisce il principio “Sub lege Rex”, con cui si stabiliva che anche il Re deve sottostare alla legge. È il primato della Legge contro il potere assoluto, esercitato da tutti i regnanti, fin dalle origini della costituzione degli Stati, espresso nel motto “Sub Rege Lex”, e, cioè, “La legge deve sottostare al Re, a tal punto che Luigi XIV, il famoso “Re Sole”, poteva dire “Lo Stato sono io”.
Quella dei Padri Pellegrini è stata la più silenziosa, ma al tempo stesso la più grande rivoluzione di tutti i tempi. E poi, un’altra nota, di grande rilevanza: i Padri Pellegrini hanno anche il merito di avere organizzato, in chiave interculturale, la più grande festa di rendimento di grazie verso la maestà di Dio creatore e pantocratore, come Colui che regge il mondo ed è anche la sorgente di tutti gli esseri viventi. Questa festa, che prende il nome di “THANKSGIVING DAY” fu realizzata per la prima volta nel quarto giovedì del mese di novembre del 1621 e così è continuata, da quell’anno fino ai giorni nostri; ed essa è negli Stati Uniti, ancora oggi, una delle più importanti feste nazionali. Un modello, questo, per tutti noi, per prendere coscienza degli innumeri doni del Signore e per imparare a dire grazie.
Ho riflettuto come chiamare questo nostro RHUM: potrebbe avere la denominazione di “San Teodoro”, a ricordo della nostra Grotta, altro bene da valorizzare e da far conoscere, per i suoi reperti preistorici. Sogni? Ma se non si sogna non si va avanti. Ripeto: fantasia e creatività! Fu così che nacquero lo Stemma e il Gonfalone di Acquedolci. Occorre sempre pensare in grande, per progettare il nostro futuro, per ciò che ancora ci resta di poter fare e, soprattutto, per le nuove generazioni. In aggiunta alla fantasia e alla creatività, c’è una parola chiave da dovere aggiungere ed è questa: il coraggio! Il coraggio, cioè, di essere innovativi, di saper demolire scelte e strutture obsolete, per averne delle nuove, più rispondenti alle esigenze del nostro tempo. E qui è il caso di citare il famoso detto latino: “Audaces Fortuna iuvat” e, cioè: “La fortuna aiuta gli audaci”, che ha riscontri in diversi autori, tra i quali Terenzio, Cicerone, Plinio il Giovane, anche se personalmente propendo per il verso virgiliano, tratto dall’Eneide, che così recita: “Audentes Fortuna iuvat”, per dire che “La Fortuna aiuta coloro che sanno osare”. Significa che è necessaria nella vita una qualità permanente più che un coraggio scriteriato e pernicioso. Quindi: fantasia, creatività e, soprattutto, coraggio!
A margine, sempre in questo contesto, desidero citare due grandi uomini politici del secolo scorso: Alcide De Gasperi, il Governatore per eccellenza della rinascita italiana, dopo la Seconda Guerra Mondiale, che si esprimeva in questi termini: “Coraggio, passione, competenza”; Franklin Delado Rooselvet, Presidente degli Stati Uniti d’America dei difficili anni trenta, che amava ripetere: “L’unica cosa di cui avere paura è la paura”.
In questi termini, penso ai giovani, i quali, come problematicamente ci ricorda San Luigi Orione, possono essere “la tempesta o il sole del domani”; e così parlo di Acquedolci, dove ripongo tanti miei affetti atavici e familiari, dove vivono i miei nipotini, Alfonso e Maria Antonietta, quasi fiori novelli nel giardino della vita, ai quali desidero dedicare questo mio breve scritto. Il nostro senso di appartenenza locale, però, è connesso anche a quella dimensione più ampia di italianità, nella considerazione anche di quel passaggio dell’Inno di Mameli “Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano”, per dire che siamo parte di un tutto, che siamo tutti italiani.
Prima di chiudere, mi sia consentita una doverosa annotazione circa la data riportata sul frontespizio di questo documento: non è casuale. Ho lavorato alla sua stesura nella primavera del 2012, ma il fatto di apporvi una data ben precisa, e, cioè, quella del 17 aprile 2012, vuole avere un significato particolare, nel quadro della storia di Acquedolci e nella ricorrenza di un evento: ottant’anni fa, infatti, il 17 aprile del 1932 moriva a Palermo, in seguito a intervento chirurgico, il Generale Antonino Di Giorgio, nostro concittadino, tanto legato ad Acquedolci e al suo progresso, oltre al fatto di essere stato un grande nella Storia d’Italia del Primo Novecento. Con riferimento alla sua attività di Parlamentare, svoltasi tra il 1913 e il 1921, partecipò alla vita politica in prima persona e con grande slancio patriottico, anche nelle vesti di Ministro della guerra, tra il 1924 e il 1925, considerandosi sempre come un militare prestato alla politica.
Il 17 aprile 2012, quindi, vuole fare riferimento alla ricorrenza degli ottant’anni dalla sua scomparsa, come data celebrativa di un personaggio illustre, il cui carattere a la cui dirittura morale si possono ben riassumere nel motto latino: “Frangar non flectar”, “Mi spezzo, ma non mi piego”. Nella sua vita, infatti, non si piegò mai di fronte a nessuno. Riscosse sempre lusinghieri successi: fu ammirato come soldato persino da Rommel, Tenente tedesco a Caporetto e poi rinomato Generale nella Seconda guerra mondiale, mentre come scrittore ricevette una nota di encomio da parte del famoso Giosuè Carducci.
Di lui così ha scritto Don Giovanni Minozzi nell’Opuscolo “Mater Orphanorum”: “Uno degli uomini più forti che io abbia conosciuto. Ingegno scintillante, tutto prontezza vivacissima, avea la serenità imperturbata degli spiriti magni. Era un fascinatore di cuori. Fu soldato per vocazione decisa, irresistibile. Sapeva comandare e obbedire con la stessa fermezza. S’adombrava d’ogni ingiustizia, anche minima, anche apparente, e scattava, sdegnato, alla protesta, vivacemente, stizzosamente”.
“Carattere fiero, nobile, risolutissimo: nacque così. La sua dirittura inflessibile non gli permise di patteggiare, di perder tempo con alcuno. Era per questo sempre veramente impolitico”. In questa memoria, che riprendo per sommi capi, la data della sua scomparsa è, quindi, un evento da ricordare, perché il Generale Antonino Di Giorgio è davvero da considerare, con un pizzico d’orgoglio da parte nostra, un personaggio storico, da ricordare e in cui noi tutti dovremmo ritrovare un modello di vita, da additare alle nuove generazioni della nostra Acquedolci.
Chiusa questa parentesi, sul piano emotivo, infine, come emerge da due mie poesie dedicate ad Acquedolci, dove ho trascorso i miei migliori anni, quelli giovanili, riprendo un concetto chiave, e, cioè: “Il tuo cuore è la dov’è il tuo tesoro”. Acquedolci ha per me una tale carica di affetti di una così grande portata da considerarlo proprio un tesoro: così, infatti, si legge in San Matteo (6,21): “Ubi enim est thesaurus tuus, ibi est et cor tuum”. Infine, proprio per rispondere alle “ragioni del cuore che la mente non intende”, come si legge nell’opera “I Pensieri” di Blaise Pascal, vorrei qui citare la chiusa della mia poesia, intitolata, appunto, “ACQUEDOLCI”: “Possano venire per te – giorni più luminosi – dei nostri, assecondando – del progresso le spinte, – avendo cura di seminare, – anche se non sa mai – chi potrà raccogliere, – perché tutti, per tutto il tempo – che ci è dato, dovremmo – imparare a lasciare il mondo – un po’ migliore di come – l’abbiamo trovato: – e fra mille anni, – chi farà la tua storia – dovrà sapere che quel presente, – qualsiasi presente – ha un cuore antico; – l’uomo non muore – e noi siamo sempre vivi, – il nostro cuore è qui: – eredita tu le nostre speranze, – i nostri pensieri, i nostri sogni, – per farne realtà nuove, – più belle e splendenti.
Vorrei anche aggiungere che la predetta poesia, a suo tempo, l’ho voluta dedicare “Alla gente di Acquedolci” con queste semplici e sentite parole, che qui riporto: “Con tutto l’affetto, con tutta la passione – di un idealista, di un sognatore, – che, nel suo piccolo, ha sempre agognato – grandi realizzazioni per Acquedolci, – e l’ideazione dello Stemma comunale – ne è il segno più emblematico, – nella chiara consapevolezza che le idee, – i sogni camminano con le gambe degli uomini – e che chi sogna ad occhi aperti – ritrova emozioni, stupore, meraviglia – e vede cose incantevoli, seducenti, – che sfuggono a chi sogna solo di notte”.
A questo punto, per recondita ispirazione, nella certezza di fare cosa gradita al lettore, cioè a tutti gli acquedolcesi di oggi, di ieri e di domani, adotto la scelta di riportarla integralmente in allegato a questo documento, che di per sé, indirettamente, non fa altro che raccontare un po’ di storia della nostra Acquedolci. È una poesia in versi sciolti, scaturita dalle ragioni del cuore, che ho composto verso la fine degli anni novanta. La datazione che riporto in calce alla stessa poesia ha una ben precisa motivazione: il 21 dicembre 1998 vuole essere il ricordo dello stesso giorno del 1969, allorché, in grande esultanza per l’autonomia ottenuta il 12 novembre 1969, si volle festeggiare, con grande partecipazione di popolo, il raggiungimento di un traguardo, tanto ambito quanto sofferto.
Ricordo che i festeggiamenti ebbero inizio, proprio nel giorno del 21 dicembre 1969, alle ore 10,30, nei locali del Palazzo Municipale, con una straripante partecipazione di popolo. Era un evento storico! Un risultato che veniva dopo un travagliato cammino, avviato fin dal 1956, quando si costituisce il “Comitato pro autonomia”, a cui farà seguito, nel 1958, nei locali del Cinema Aurora, un’assemblea cittadina, per la raccolta di fondi e la sottoscrizione per l’Autonomia, nel corso della quale si provvide anche all’elezione del Presidente del Comitato, nella persona dell’Arciprete Antonino Di Paci.
Il paese, quel giorno, in segno di festa, fu inondato di bandierine tricolori, realizzate materialmente da Pippo Spina. A ciascuno il suo! Da rilevare un fatto significativo, che connota la nostra cultura e la nostra fede religiosa: i discorsi celebrativi si fecero al Municipio, però la festa ebbe il suo culmine nella Chiesa Madre, non tanto perché l’Arciprete Antonino Di Paci fosse il Presidente del “Comitato per l’Autonomia” quanto come atto di ringraziamento verso Dio, da cui riceviamo ogni bene e che resta pur sempre l’Artefice primordiale della storia. Le campane della Chiesa suonarono a festa e a lungo quel giorno, come erano risuonate nella tarda serata del 12 novembre 1969 (intorno alle ore 23,00), e in particolare dietro espresso invito del Magistrato Filippo Lo Turco, deciso sostenitore dell’Autonomia, allorché rientrarono ad Acquedolci l’Arciprete Di Paci, felicissimo, e una folta delegazione di acquedolcesi al suo seguito, dopo che quel giorno l’Assemblea Regionale Siciliana votò, all’unanimità dei presenti, la Legge per l’Autonomia di Acquedolci.
L’Arciprete Antonino Di Paci fu, ad onor del vero, il principale protagonista dell’Autonomia di Acquedolci e ritengo che non sia stata casuale la scelta della data per i festeggiamenti, del 21 dicembre 1969, perché Lui era proprio nato a San Fratello il 21 dicembre del 1883. Del suo discorso, vibrante, appassionato, con la stessa tonalità dei suoi sermoni in Chiesa, tenuto quel giorno al Municipio, mi piace ricordare una sua citazione latina: “Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur”. E cioè: “Con la concordia le piccole cose crescono, con la discordia le più grandi sfumano”. La gnome, genericamente riferita ai Romani, deriva, per l’esattezza da un passo del “Bellum Iugurthinum”, in cui il Re Micipsa parla ai figli Aderbole e Iemsale, e fu nell’antichità molto famosa: è citata da Seneca, San Girolamo, ripresa da Cicerone nel “De Amicitia”. È una massima sempre attuale e diffusa in tutte le lingue, in cui c’è il corrispettivo del nostro detto “L’unione fa la forza”.
E per finire, come segno d’affetto per la nostra bella Acquedolci e per la sua Gente, desidero riportare, qui unite, ancora due mie poesie: un’altra, intitolata anch’essa “Acquedolci”, non in versi sciolti come la precedente, di cui ho già detto, ma in terzine, come “Septercanto”, di cui meglio dirò in un apposito foglio illustrativo, riportato in appendice a questo scritto, e poi “Il carrubo”, in quartine. Le motivazioni e il significato di tutt’e due le poesie trovano espressione nelle note che ho riportato per ciascuna di esse al momento della mia donazione al Comune di Acquedolci. E così integralmente le riprendo, allegandole a questo stesso documento.
In aggiunta, ho voluto riportare anche un mio grafico con una scritta latina “Si bellum non vis para pacem”, e cioè: “Se non vuoi la guerra prepara la pace”. Questo motto l’ho riportato anche su un medaglione di marmo, che ho donato al Comune di Acquedolci, nel 1999, in occasione del trentennale della sua autonomia, assieme a un altro, intitolato “Homo homini Deus”, “L’uomo è Dio per l’uomo”: tutt’e due sono appesi alla parete all’ingresso della “Sala consiliare”, assieme, oggi, ad altri due medaglioni, sempre con scritte latine, di cui ho fatto dono al Comune, nel 2009, nella ricorrenza del quarantennale dell’autonomia di Acquedolci. Trascuro qui di parlare di questi medaglioni, rimandando il lettore a rivedere quanto ho scritto in un apposito opuscolo, diffuso dall’Amministrazione comunale di Acquedolci in occasione delle celebrazioni del quarantennale della sua autonomia, se ha voglia di assecondare la sua curiosità!
Perché, dunque, questa mia grafica con i colori dell’arcobaleno e con la predetta scritta latina? Vuole essere, alla fine, nel contesto di questo documento, che racconta anche un poco della storia della nostra Acquedolci, l’annuncio di un messaggio di pace: ne abbiamo sempre bisogno e, in un contesto più ampio, esso è anche il “grido di dolore” di tutti i popoli della terra, specie dei più martoriati, oggi come ieri. “Se non vuoi la guerra prepara la pace”: per dire che la pace non è un dato, ma una conquista, avendo l’umiltà di saperlo leggere alla luce del messaggio cristiano, sullo sfondo dell’arcobaleno, che richiama, di per sé, la biblica alleanza tra Dio e gli uomini, dopo il diluvio universale. Le ali distese del volatile sovrastanti la grafica, che possono essere quelle di una colomba, per rifarci alla storia di Noè, vogliono sostanzialmente dire, calandoci nella nostra storia personale, come in quella dei popoli, che il perdono e l’amore sono le ali della pace.
Riprendendo quanto scrivevo in precedenza, quando dicevo dell’arcobaleno e dei richiami biblici connessi al numero profetico del “sette”, mi piace aggiungere questa ulteriore sottolineatura. Per dire che nei sette colori dell’arcobaleno si riflettono i sette “doni” dello Spirito Santo: il rosso della “Sapienza”, l’arancione dell’ “Inteletto”, il giallo del “Consiglio”, il verde della “Fortezza”, l’azzurro della “Scienza”, l’indaco della “Pietà” e il violetto del “Timor di Dio”. Quanti significati, quindi, si assommano nell’arcobaleno! Mi auguro quindi, che l’arcobaleno possa sempre essere sempre un richiamo per ciascuno di noi e che possa splendere nella nostra vita e nella storia della nostra Acquedolci con questa considerazione che ci fa riflettere anche sulla vita come dono e, soprattutto, come impegno e realizzazione, che mutuo da una massima Baden Powell, il fondatore dello scautismo: “Ciascuno di noi dovrebbe sempre impegnarsi a lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”.
Vogliamo riuscire in tutto questo? Impariamo a portare sempre alto nel nostro cammino il Vessillo dell’arcobaleno, per tutti i richiami che esso sottende. Impariamo, quindi, – e io sono il primo discente – a saper mettere da parte l’orgoglio imperante del mondo contemporaneo e rimettiamoci, con la più grande umiltà, all’amore, alla misericordia e all’aiuto di Dio, seguendo i suoi “Comandamenti”, che sono forza e sostegno nel nostro viaggio terreno, nel nostro pellegrinaggio di stranieri verso l’eternità e “la Patria celeste”, confidando nello Spirito Santo e in Gesù, nostro Signore, protetti dalla Vergine Maria, Madre di Dio e Madre nostra. Così, e qui cito il Vangelo di San Luca, “grazie alla tenerezza e alla misericordia di Dio, ci visiterà, in Cristo Gesù, un sole che sorge dall’alto, per risplendere su tutti noi, che stiamo nelle tenebre, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.
Alfonso Di Giorgio
]]>Nel 1922 San Fratello era uno dei paesi più popolosi e importanti dei Nebrodi; l’evento franoso non fu il primo e purtroppo neanche l’ultimo, ma certamente il più grave che il paese e i suoi abitanti hanno subito nella loro storia.
Gran parte della popolazione perse la propria abitazione e la comunità vide distrutti gran parte dei suoi edifici storici e religiosi; in tanti furono costretti a lasciare il proprio paese che si decise di dover ricostruire nella allora frazione di Acquedolci, che al tempo era un borgo per lo più raccolto attorno all’antica torre e al castello e che da sempre, e ancora oggi, veniva chiamato dai sanfratellani “la Marina“.
Così venne pianificata la costruzione della Nuova San Fratello, destinata però a diventare negli anni Acquedolci.
La storia del nostro abitato e del nostro Comune è per questo fortemente legata a questo evento, che anche noi sentiamo di dover ricordare. Occorsero 50 anni ad Acquedolci per diventare Comune autonomo.
L’autonomia deve essere però considerata autarchia, cioè autosufficienza, e non “indipendenza”, poiché un figlio maggiorenne acquisisce la propria autonomia rimanendo legato indissolubilmente alla propria famiglia di origine. Secoli di storia accomunano San Fratello e Acquedolci, gran parte degli abitanti di Acquedolci ha origini sanfratellane e ancora oggi i legami familiari ed economici sono molto forti, e nessuna delle due comunità deve dimenticarlo.
Il difficile periodo storico rende complicato celebrare degnamente l’anniversario, come purtroppo è stato difficile programmarlo. Anche la nostra pro loco ha elaborato alcune proposte che auspichiamo potranno essere condivise e realizzate; abbiamo offerto la nostra collaborazione agli amici sanfratellani e all’architetto Faranda, col quale da sempre in sintonia abbiamo condiviso idee e progetti, con l’intenzione di poter lasciare un segno anche in questa occasione.
Rimandiamo ogni approfondimento storico sugli eventi e la fondazione di Acquedolci all’esaustivo e completo testo dell’architetto Pierpaolo Faranda Città giardino: Il Piano di Acquedolci. Storia e urbanistica di una città siciliana fondata in età fascista (1922-1932) edizioni Qanat 2010; chi vorrà potrà anche leggere, sempre di Pierpaolo Faranda, La fondazione di Acquedolci negli scritti di Benedetto Rubino (1922-1937) edizione Qanat 2013.
CONTRIBUTI ALLA MEMORIA COLLETTIVA
In questa occasione vogliamo condividere un documento e un contributo legati all’evento.
DOCUMENTO
Il documento è un inedito racconto della frana trascritto dall’arciprete Antonino Di Paci nei registri della Parrocchia di Acquedolci, riscontrato da giovani parrocchiani durante la sistemazione dell’archivio parrocchiale circa venti anni fa.
L’8 gennaio 1922, una grandiosa frana travolgeva più di un terzo dell’abitato di San Fratello, la parte centrale dove sorgevano tutti gli edifici pubblici e le migliori case dei cittadini, espandendosi poi per parecchi e svariati chilometri, fino al torrente Furiano, distruggendo nel suo travolgente percorso floride e ubertose campagne. In quel rigido inverno del 1922, nei giorni 4, 5, 6 e 7 gennaio era caduta abbondante la neve e tutto l’abitato di San Fratello era coperto da un manto bianco e spesso. Le feste natalizie erano trascorse liete e tranquille. Gli abitanti in maggioranza agricoltori, soddisfatti dell’abbondante raccolto dell’annata stavano tappati in casa a godersi tranquilli attorno al focolare domestico, al calduccio nella propria abitazione, ricca di masserizie e di derrate e nulla sospettavano, né potevano sospettare, che tanta serenità e godimento dovesse presto finire.
Ma venne la fatale alba dell’8 gennaio del 1922 e coi primi albori cominciarono a manifestarsi i primi sintomi della frana, che mostruosa e quasi cauta si avanzava attanagliando e travolgendo brutalmente: prima i quartieri della Murata e Pompa e poi man mano i quartieri della Pescheria, Badìa, Piazza, Porta Sottana, S. Ignazio, Puntalarocca, Maddalena, Valle. E cosìnel suo fatale avanzare venivano sconquassati, travolti e distrutti con le case dei cittadini, tutti gli edifici pubblici: il Municipio, la Pretura, il Teatro, l’Ufficio Postale, la monumentale Chiesa Matrice, il grandioso Monastero e Chiesa delle Benedettine, le Chiese di S. Pietro, S. Giacomo, S. Benedetto, S. Ignazio, S. Maria Maddalena, del SS. Rosario, restando proprio al taglio della frana la bella Chiesa di S. Nicolò, col suo alto e maestoso campanile, gravemente lesionato e pericolante.
L’Arc. Luigi Abate si premurò a far costruire tre grandi bastioni per assicurare la stabilità della Chiesa e il Genio Civile di Messina, non rendendosi conto della gravità del male che continuava a corrodere le basi della Chiesa, buttando milioni senza costrutto, tentò salvare il salvabile abbattendo la navata laterale della Chiesa prospiciente la frana, costruendo muri tra l’una e l’altra colonna per rafforzare e puntellare gli archi soprastanti; ma l’intervento si è dimostrato inutile come purtroppo le tante altre opere fatte dal Genio Civile di Messina nell’abitato di San Fratello: e non passarono che pochi anni che si impose la demolizione completa del campanile e in parte della Chiesa, per evitare qualche altra disgrazia e salvare da sicura rovina i preziosi marmi degli altari.
Alle ore 13 di quel tragico giorno – 8 gennaio 1922 – la campana grande della Chiesa Matrice di Maria SS. Assunta, abbattendosi, insieme alla torre campanaria, dava, con lunghe e profondo rintocco, il triste annuncio dell’immane, orribile catastrofe. Il panico e la confusione di quel sciagurato giorno è stato indescrivibile: gli abitanti dove si manifestava la frana furono costretti a scappare senza poter portare con se la men che minima cosa, perché l’incalzare della frana era travolgente, le case si rovesciavano le une su le altre inesorabilmente, il pericolo diveniva sempre più terrificante. L’accorrere dei parenti dei disastrati e degli amici, autorità e curiosi accrebbe in modo inverosimile la confusione in quel guzzabuglio di neve e di fango: il caos divenne indescrivibile.
E venne la notte e nella notte di quel terribile giorno la frana compì la sua opera devastatrice. Col far del giorno, la mattina del nove gennaio, tutta la parte centrale dell’abitato era divenuta un vasto campo di mostruose e lugubri macerie e tutto tutto intorno alla periferia della gigantesca frana: grida allarmanti, pianti strazianti, lamenti pieni di desolazione della povera gente che aveva perduto la casa con tutti i suoi risparmi, rimanendo sul lastrico senza indumenti e senza mezzi di sussistenza. Sette persone sono rimaste vittime tra le macerie tra cui Filadelfio Caprino, soprannominato Brik, il manticiaro della Matrice, che per cercare di portare in salvo la propria madre malata con una gamba rotta, vi perì insieme.
Il Generale Di Giorgio Antonino accorso subito sul posto del disastro, per dare aiuto ai cuoi concittadini, vuotò i depositi del 12° Corpo d’Armata di cui era Comandante supremo, elargendo ai disastrati coperte, materassi, lenzuola, mantelline, vestiario, generi alimentari, tutto.
Da varie città d’Italia affluirono soccorsi, denaro, indumenti e da Biella balle intatte di stoffe. La città di Palermo col denaro raccolto (…) che per alloggiare i poveri disastrati rifugiatisi, in quel rigido e disagiato inverno in casette di campagna, tra parenti e sotto la strozza di coloro a cui la frana aveva risparmiato la casa.
Con la Legge del 9 luglio 1922 N. 1045 fu decretato il trasferimento dell’abitato distrutto in Acquedolci, dove venne costruito un vasto Piano Regolatore con strade larghe, con banchine, fogne, rete idrica con acqua abbondante, case popolari, il Municipio, la Chiesa, il Cimitero. (il registro continua con altre descrizioni di Acquedolci e della Chiesa Madre)
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Padre Nino fu l’artefice dell’autonomia di Acquedolci.
San Fratello, 21 dicembre 1883 – Acquedolci 9 luglio 1972
Arciprete della Parrocchia San Benedetto il Moro di Acquedolci dal 1943 alla morte, designato a guidare il comitato per l’autonomia si occupò di ogni aspetto per portare a termine l’importante proposito, ormai necessità per tutta la sua comunità; determinato e diretto nel parlare e nello scrivere ha anche raccolto e distribuito i suoi ferventi discorsi.
Il 21 dicembre 1969 in suo onore (data del compleanno) si svolsero i festeggiamenti dell’avvenuta autonomia nella sala consiliare di Acquedolci autonomo.
La legge n. 1045 del 09/07/1922 prevedeva la ricostruzione dell’abitato di San Fratello in altro luogo, padre Nino morì il giorno del cinquantesimo della promulgazione della stessa.
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POESIA
Il contributo alla ricorrenza ci viene donato dal nostro socio onorario direttore Alfonso Di Giorgio che ha dedicato un suo septercanto alla Grande Frana, una poesia dedicata alla nonna, testimone della frana. Molti di noi hanno ascoltato dalla voce dei propri cari il racconto di quei giorni e delle sue conseguenze e il ricordo vive in tutte le famiglie.
Nota: parte delle foto appartiene agli archivi del cavaliere Benedetto Rubino e di Ciro Artale, le altre provengono dal web.
]]>PRESENTE
È il titolo che dò a questa breve storia di vita acquedolcese.
Dall’anno scolastico 1947-1948, dovendo frequentare la scuola media a Sant’Agata di Militello, non essendocene un’altra ad Acquedolci e non essendoci mezzi di trasporto tra Acquedolci e Sant’Agata, mio padre fu costretto a comprarmi la bicicletta. Era una sua naturale preoccupazione, ma, per noi ragazzi di quel tempo poter disporre di un mezzo di trasporto era proprio una grande conquista.
Certo era faticoso pedalare, ma, con la bicicletta, avevo conseguito un traguardo importante. Potevo spostarmi celermente in paese e potevo andare nei paesi vicini: andavo a Sant’Agata, non solo a scuola, ma anche al cinema, al chiuso d’inverno e all’aperto d’estate. Apparteneva ai fratelli Prestiani ed era dislocato dove ora sorge la grande struttura dell’Agorà.
Con la bicicletta andavo anche a San Fratello, a trovare mia zia Flavia, la sorella di mio nonno. Ma mi spingevo sino a Patti e al Santuario del Tindari. Cominciai a disporre della bicicletta dall’estate del 1947: avevo già compiuto dieci anni.
Con la bicicletta, mi spostavo anche più celermente all’interno di Acquedolci. E da quell’anno mi sentivo attratto da una particolare manifestazione che aveva luogo sulla strada che dalla via nazionale portava alla stazione ferroviaria, non ancora asfaltata, che costeggiava, scendendo, sulla destra un grande giardino, coltivato a gelsi, appartenente al Barone Cupane e rientrante nel territorio del Castello. Gli alberi venivano potati per fare solo lunghi rami e foglie in abbondanza. Ed era quello che si voleva ottenere: non gelsi, mai visti, ma soltanto rami e foglie, ciò che serviva per l’allevamento del baco da seta. E ciò avveniva all’interno del castello, dove, si lavorava anche quel tessuto speciale di lana pressata, con cui poi si realizzavano i cosiddetti “scapuc“, dei mantelli speciali senza maniche e con cappuccio usato soprattutto della gente di San Fratello.
Ma torniamo alla via delle rimembranze. Era così denominata, perché, ogni anno, il 4 novembre, si ricordavano i caduti di Acquedolci nella grande guerra. Erano stati tredici (1) e tredici cippi marmorei erano dislocati lungo il lato di destra, scendendo verso la stazione ferroviaria.
Ora, non si sa che fine abbiano fatto (2), penso non siano stati distrutti. Vorrei augurarmi che venissero recuperati oppure sulla scorta del vecchio modello realizzarne dei nuovi e collocarli in prossimità dell’odierno monumento ai caduti. Si tratterebbe di un gesto importante, come recupero anche di tanti anni di storia di Acquedolci a cui voglio fare riferimento con questo mio scritto.
Era un raduno annuale, del quattro novembre, da cui, benché ancora ragazzo, mi sentivo attratto e anche sollecitato a parteciparvi dal professore Antonino Pertinace, a cui mio padre mi aveva affidato nello studio del latino, a sostegno anche di quello che potevo fare a scuola. Ne era un profondo conoscitore e mi aiutò a porre le basi non solo per la conoscenza linguistica del latino, ma soprattutto per l’innamoramento dei classici latini, il cui studio e approfondimento mi è stato d’ausilio fino all’università. E potrei dire anche altro, sino al punto che ho utilizzato la lingua latina per capovolgere alcune espressioni latine in chiave didascalica, di cui sono la riprova i medaglioni di marmo, scritti in latino, con l’intendimento di mettere a confronto due ere storiche: quella pagana e quella cristiana.
Ma ritorno alla via delle rimembranze. Proprio là, sul lato dove erano dislocati i cippi marmorei, avveniva il raduno. C’erano le massime autorità del tempo: dal Delegato Municipale, essendo allora Acquedolci frazione del Comune di San Fratello, al Maresciallo dei Carabinieri, al professore Antonino Pertinace, che non mancava mai, al cavaliere Benedetto Rubino, farmacista e storico di San Fratello (e Acquedolci), padre di Cirino, militare di carriera, che andrà sempre più in alto nei ranghi militari, sino a rivestire quello più ambito di Generale di Corpo d’Armata.
E potevano non mancare le famiglie più rappresentative nella storia di Acquedolci dai Latteri, con i suoi diversi ceppi, dai fratelli Catania, commercianti, ai Di Giorgio, con altrettanti ceppi, tra i quali ha fatto spicco il Generale Antonino Di Giorgio, già Deputato e Ministro della Guerra negli anni 1924 e 1925 e storico con diverse pubblicazioni e scritti, tra tutti “Ricordi della Grande Guerra (1915-1918)” un libro veramente importante e prezioso.
Negli anni, come militari importanti, ricordo anche la presenza, in più di una manifestazione, del Generale Giuseppe Artale e del Generale Francesco Ricca. Ma soprattutto c’era tanta gente, potrei dire tutta Acquedolci.
Non vado oltre nei dettagli, ma c’è qui un particolare che vorrei evidenziare, che è connesso alla grande e sentita manifestazione, direi patriottica, che svolgeva in quegli anni, tra il 1945 e il finire degli anni ’50. In quel contesto, era solenne la rievocazione dei caduti. Si chiamavano uno per uno, in ordine alfabetico, senza dimenticare nessuno e ad ogni chiamata, da parte di tutti i partecipanti, in gran coro, si rispondeva: PRESENTE! Sembrava proprio che quei caduti tornassero a vivere, tanto forte, accorato era quel dire PRESENTE. Costituiva proprio quel “presente” un richiamo così profondo e popolare sino al punto da farne una battuta frequente, popolare e ironica: “Che ti possano chiamar presente”. Non vado oltre in questa analisi storica. Mi fermo qui.
Ma, per l’occasione, nella ricorrenza del centenario della tumulazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria, ho voluto scrivere una poesia, in septercanto, in cui evidenzio gli aspetti più significativi dell’evento. Di ciò, in primis, ho voluto rendere partecipe, per primo, tutta la compagine amministrativa di Acquedolci, dal Sindaco agli Assessori, dal Presidente del Consiglio Comunale a tutti i Consiglieri, nessuno escluso. Ho reso partecipe dell’iniziativa, con apposita nota, per conoscenza il Presidente della Repubblica, on. Sergio Mattarella, il Presidente della Regione Siciliana, on. Nello Musumeci e il Presidente dell’ANCI Antonio De Caro. Con questo mio scritto, che indirizzo soprattutto a tutta la cittadinanza di Acquedolci, credo, nel mio piccolo, di avere dato un contributo, con modestia, senza nessuna particolare presunzione, alla celebrazione storica del 4 novembre 2021.
In una dimensione di trascendenza, noi non sappiamo chi sia il Milite Ignoto, ma lui sa e vede. Per tutti i combattenti, per tutti i militi ignoti, per tutti i servitori della nostra Italia, valga quanto è stato scritto: “Chi per la Patria muore, vissuto è assai“.
NOTE
(1) In verità, dalle foto, sembra che fossero di più (forse 21); purtroppo ad oggi non è stato possibile rinvenire documenti circa la loro collocazione.
(2) I cippi furono distrutti nottetempo perché il giardino del castello doveva essere urbanizzato… per ulteriori approfondimenti si rimanda all’articolo su caduti e monumento.
Intervista al presidente della pro loco del 4 novembre 2021 VIDEO
O Gesù Crocifisso, a Te rivolgiamo la nostra fervida preghiera per tutti i morti delle battaglie, in terra, sui mari, nei cieli; è la preghiera per i nostri Eroi, che nel loro supremo olocausto ci ricordano le nostre glorie ed i nostri dolori.
Ma non tutti hanno una Croce, che nel suo sacro simbolismo suggelli nome e sepoltura; ed è in particolare per questi Caduti, i cui resti mortali sono andati per sempre dispersi, che la nostra supplica sale a Te, Gesù.
Accoglila e concedi pace eterna a quelle anime che lasciarono il mondo senza il conforto di una persona amica e nel martirio; fa sì che le desolate madri, le spose e i figli trovino sostegno nel Tuo cuore trafitto.
Scenda la Tua benedizione sulle case nelle quali i cari Scomparsi non sono più tornati, sulle disperse ceneri, sulle anime smarrite e sulla tristezza delle attese deluse.
Pietà, o Signore, della nostra diletta Italia per la quale tante generose giovinezze si immolarono; pietà per questa nostra terra alla quale Tu donasti il privilegio del genio ed affidasti una missione di fede, di cultura, di civiltà.
Gesù Crocifisso, per i dolori e il martirio dei nostri Caduti, benedici, proteggi e salva l’Italia.
AMEN
A San Fratello il 2 gennaio del 1906 Marianna Mancuso, sposata Caroniti, dava alla luce un bambino al quale veniva dato nome Filadelfio. Non gli veniva però fatto alcun festeggiamento, perché due suoi fratellini erano morti a poche settimane dalla nascita e ci si aspettava per lui un destino simile. Invece sopravvisse non solo alle epidemie, ma a due guerre mondiali, a una frana, che distrusse il suo paese, e a tante avversità. Rimasto orfano di madre ad appena 11 anni, andò via giovanissimo dal paese per continuare gli studi. La cultura era per lui un aspetto fondamentale della realizzazione della persona.
Fu per questo che convinse la sorella più piccola a seguirlo a Palermo negli anni ’20 per laurearsi anch’essa. La cultura era per lui una forma di distinzione se non dalla massa senz’altro dall’ignoranza, ma ne aveva una concezione democratica, tanto che voleva che tutti studiassero, cercando di rimuovere tutti gli impedimenti che frenassero il completamento della formazione delle persone, specialmente delle donne. Questo lo faceva sia attraverso la sua azione politica che individuale. Ricordo che appena si accorgeva delle potenzialità di qualcuno cercava di convincere i genitori a fargli completare gli studi promettendo loro aiuti concreti, come la possibilità di vivere a casa nostra per rimanere in città a studiare. Questo suo prendersi a cuore i destini del prossimo credo sia l’insegnamento più significativo che mi abbia lasciato. Si occupò personalmente di migliaia di problemi, soprattutto lavorativi, che avvilivano i suoi paesani (e non solo). Non riusciva neppure a parlare il dialetto sanfratellano, anche se lo capiva, tanto giovane era dovuto andare via, ma ne rimase a tal punto legato che, una volta andato in pensione dalle Ferrovie, si fece eleggere sindaco di San Fratello nel 1973.
E’ lì quindi che io cerco di ritrovare mio padre, nei giorni che come oggi rappresentano per lui un anniversario: tra i boschi di faggio, tra i cavalli che pascolano liberi sulle alture, nella chiesa remota sul Monte Vecchio dedicata ai santi fratelli, tra le case franate e ormai ruderi perduti, tra le macerie del vecchio castello. Lo vorrei cercare anche nella toponomastica del paese, ma leggo soltanto di vie dedicate a Mazzini, Garibaldi e tutti i Savoiardi, quelli che hanno creato le condizioni per fare emigrare verso le Americhe e il Nord Italia l’ottanta per cento dei sanfratellani. San Fratello, come gli altri paesi siciliani, colpito dall’odio col quale è stato trattato, ha quindi dimenticato quanti lo hanno amato.
Filadelfio Caroniti (San Fratello 02-01-1906 – Messina 12-09-1979) fu parlamentare della repubblica italiana dal 1948 al 1953, sindaco di San Fratello dal 1973 al 1977 e ingegnere delle ferrovie dello stato. Nato da Salvatore Caroniti e da Marianna Mancuso, entrambi commercianti, rimase giovanissimo orfano della madre. Dopo avere trascorso la sua infanzia a San Fratello, andò in collegio a Palermo per completare gli studi. Quando una rovinosa frana distrusse il suo paese, l’otto gennaio del 1922, lui si trovava ancora a San Fratello per le vacanze di Natale. Aveva da poco compiuto 16 anni e la sua famiglia aveva già perso la madre, la casa di abitazione e il negozio nel quale si svolgevano le attività lavorative. La gran parte dei suoi parenti era già emigrata verso gli Stati Uniti, mentre Salvatore Caroniti portò la propria famiglia nel territorio di Acquedolci, dove nacque il nuovo abitato, su iniziativa dell’allora ministro della Guerra Antonino Di Giorgio. Le diverse traversie spinsero Filadelfio a dedicarsi ancora più tenacemente agli studi. Prese il diploma con ottimi voti, ottenne anche un secondo diploma che gli consentì di iniziare a lavorare come geometra, e si iscrisse all’Università, sempre a Palermo, in ingegneria. Grazie ai primi lavori che svolse poté portare con sé a Palermo la sorella più piccola, Luigia (detta Gina), che completò gli studi e si iscrisse ai corsi di farmacia. La sorella più grande, Maria Angelina, era già maestra elementare, mentre Maria Luisa rimase a casa con il padre. Durante gli ultimi anni di liceo iniziarono a manifestarsi i suoi interessi per la politica. Filadelfio Caroniti fu inizialmente attratto per le istanze repubblicane, partecipando attivamente a circoli politici nei quali si avversava palesemente la monarchia sabauda. Ciò non gli impedì di laurearsi in regola e con ottimi voti. Ottenuto il titolo di ingegnere, nel 1929 iniziò a collaborare con l`’ufficio tecnico di Acquedolci, partecipando alla redazione del progetto di realizzazione del Cimitero comunale, ma in breve tempo vinse un concorso nelle Ferrovie dello Stato e prese servizio a Messina come funzionario. Nel 1937 dovette iscriversi al Partito Nazionale Fascista per non perdere il posto di lavoro, ma rimase sempre molto critico verso il regime e si avvicinò agli ambienti dell’Azione Cattolica. Nel 1937 si sposò con Ida Cuffari Buttà`, insegnante di matematica, proveniente da una famiglia borghese di Naso. Durante gli anni della seconda guerra mondiale Caroniti fu ispettore capo superiore al movimento delle Ferrovie dello Stato, sempre a Messina. La città e, in particolare, la stazione ferroviaria, furono devastate dai bombardamenti alleati, e lui stesso riuscì a sopravvivere per delle fortunate coincidenze. Nel dopo guerra si distinse per l’attività politica all’interno della Democrazia Cristiana e alle elezioni del 1948 fu candidato al parlamento nazionale, nel collegio della Sicilia orientale, sostenuto elettoralmente dai ferrovieri ma anche da diverse parrocchie della città e della provincia di Messina. Ottiene 38.013 preferenze risultando il sesto della Democrazia Cristiana, poche decine di voti sotto Michelangelo Trimarchi, che risultò il più votato della provincia di Messina con circa 10000 preferenze in più rispetto a Gaetano Martino, eletto nel Blocco Nazionale. Durante il corso della prima legislatura nazionale presenta 15 progetti di Legge, dei quali uno come primo firmatario, e fa 82 interventi parlamentari, evidenziando un carattere battagliero, che lo porta a non essere sempre in linea con la disciplina di partito. Siede nella commissione trasporti – marina mercantile e in quella lavori pubblici, anche se spesso si occupa di istruzione pubblica e, soprattutto, si batte per la ricostruzione delle case distrutte dal terremoto e poi dai bombardamenti, oltre che per la costruzione delle infrastrutture del Mezzogiorno.
Nella divisione in correnti del congresso democristiano del 1949, Caroniti si posiziona nel gruppo dei vespisti, la componente più moderata del partito, con Stefano Jacini e Carmine De Martino, ex esponenti del Partito Popolare. Lui è decisamente progressista quanto a programmi di innovazione tecnologica, ma anche per l’attenzione ai poveri e ai deboli. È però un acceso difensore del diritto di proprietà e, soprattutto, è decisamente conservatore quanto alla difesa dei princìpi della tradizione cattolica. Chiuso a ogni accordo coi socialcomunisti, vorrebbe che la DC costruisse una aggregazione di centro destra. Ciò non toglie che Caroniti stringa rapporti di amicizia con importanti esponenti della DC, tra i quali i futuri presidenti Gronchi e Leone. Alle elezioni del 1953 e 1958 si ricandida con la DC, tuttavia, pur ottenendo nelle due elezioni una ottima affermazione personale, non riesce a essere confermato in Parlamento e torna alla sua attività di dirigente delle Ferrovie. Nel frattempo, nel 1949 nacque la sua prima figlia, Maria Anna. Nel 1961, essendo ormai rimasto vedovo, Caroniti si risposò con Annamaria Fleres, anche lei insegnante di matematica, proveniente da una famiglia borghese di Messina sopravvissuta al terremoto. Con lei ebbe tre figli, Marina, Salvatore e Dario. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta la sua sede di lavoro si era spostata a Reggio Calabria, dove arrivò a svolgere mansioni di capo compartimento delle ferrovie in un periodo molto complesso della storia calabrese, basti pensare al deragliamento del treno Palermo Torino, presso Gioia Tauro, il 22 luglio 1970, ai moti di Reggio del 1970-71, alla occupazione della linea ferrata da parte degli abitanti di Africo capitanati da don Giovanni Stilo.
Nel 1969 partecipò al concorso internazionale di idee per un progetto di attraversamento stabile stradale e ferroviario dello Stretto di Messina, bandito dal Ministero dei lavori pubblici. Insieme agli ingegneri Costa e Enrico Fleres, Caroniti propose un istmo in blocchi di cemento, che avvicinasse le due sponde, realizzando infine un ponte a campata ridotta, maggiormente rispondente alle capacità tecnologiche dell’epoca. Il progetto presentava inoltre aspetti particolarmente innovativi, come lo sfruttamento della forza delle correnti marine per la produzione energetica, oltre alla realizzazioni di una nuova portualità particolarmente rivolta alle imbarcazioni da diporto per il lancio del turismo. La commissione preferì tuttavia la soluzione del ponte sospeso a campata unica, sicuramente più affascinante, ma allora tecnicamente non realizzabile, essendo il ponte più lungo fino a quel momento realizzato minore di un terzo rispetto a quello che sarebbe dovuto sorgere sullo Stretto. Ancora adesso, 50 anni dopo, nessun ponte sospeso di tre km è stato finora costruito.
Nel 1972-73 si pensò che Caroniti sarebbe stato nominato finalmente capo compartimento della tratta ferroviaria Reggio Calabria Salerno. Nel governo era allora ministro dei lavori pubblici il messinese Antonino Gullotti. Gli fu invece preferito un suo avversario storico all’interno delle ferrovie, l’ing. Bitto, espressione di una cordata legata alla sinistra DC, dalla quale un decennio dopo venne fuori il presidente delle Ferrovie Lodovico Ligato. Andato in pensione nel 1973, Caroniti tornò subito a stabilirsi a Messina e riprese l’attività politica, candidandosi al consiglio comunale di San Fratello. L’eccezionale numero di preferenze ottenute nelle elezioni lo condusse a essere scelto dal consiglio quale sindaco. Nel periodo della sua sindacatura furono realizzate, o comunque avviate, opere pubbliche di eccezionale importanza per il paese, come la Chiesa e il quartiere di San Nicolò, lo Stadio, la biblioteca, l’acquedotto etc. Nonostante ciò nel 1977 la direzione provinciale della DC decise che Caroniti non doveva essere confermato sindaco, cosicché egli decise di non ricandidarsi e di allontanarsi dal partito nel quale aveva militato, ma del quale rinnegava le aperture al PCI che in quegli anni si stavano profilando. Due anni dopo Filadelfio Caroniti morì a Messina il 12 settembre del 1979, stroncato da un tumore ai polmoni che lo colpì irrimediabilmente, nonostante non fosse un fumatore.
Filadelfio Caroniti, su storia.camera.it
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