Storia di una scelta
di Alfonso Di Giorgio
del 17 aprile 2012
Lo stemma, quale contrassegno di una famiglia, come si usava un tempo, o di una Comunità, vuole esserne l’emblema figurativo. Come, infatti, la quercia è l’immagine della forza, così per una Comunità si cerca di cogliere il segno più rappresentativo della sua storia e di quelle che sono anche le sue aspirazioni per il futuro, perché in esso possano confluire le scelte più importanti. Il Gonfalone è come la bandiera o lo stendardo di una Città, che in sé riproduce lo Stemma quale elemento centrale, derivandone una sua peculiare caratteristica.
Sono state queste le motivazioni di fondo a cui mi sono ispirato, quando, tra il 1979 e il 1980, nella mia qualità anche di Assessore alla Pubblica Istruzione e ai Beni Culturali, confortato dal pieno mandato ricevuto sia da parte del Sindaco che dall’intera Giunta Municipale del tempo, ho posto mano alla mia figurazione dello Stemma. A onor del vero, la mia idea partiva da lontano, da quando, negli anni ’60, prima ancora, cioè, che Acquedolci divenisse Comune autonomo, facendo il pendolare tra Acquedolci e Palermo, dove ero docente di ruolo nelle scuole elementari, ebbi modo di conoscere Emanuele Flaccomio, che prendeva il treno a Cefalù e che era il Bibliotecario della Facoltà di Agraria dell’Università di Palermo. Fu così che, tra le tante cose che andava scrivendo, un giorno mi diede la fotocopia di un suo articolo, che ancora custodisco gelosamente, pubblicato da “La Sicilia del Popolo” il 4 Luglio 1957, e che a caratteri cubitali aveva questo titolo: “Acquedolci è simbolo d’una industria che onorò e arricchì la Sicilia”, con un sottotitolo abbastanza esplicativo: “È di casa la canna da zucchero sin dalla dominazione araba”.
E questo, anche perché Emanuele Flaccomio era convinto che il nome di Acquedolci fosse derivato, come scriveva nello stesso articolo, “dalle acque che scorrevano nelle sue vicinanze e che divenivano dolciastre con gli avanzi delle “cannamelle” che vi si buttavano, dopo l’estrazione dello zucchero”. Ma non è così. Come ho evidenziato nel mio scritto “Ricordare per andare avanti”, inserito nell’Opuscolo celebrativo del Quarantennale dell’autonomia, del 2009, il toponimo di Acquedolci è legato alla storia dell’antica Roma, perché sulla “Consolare romana”, che transitava allora lungo l’attuale linea ferrata, e che non si volle salvaguardare (uno scempio vero e proprio, a danno di un bene culturale enorme!), la nostra località era luogo di sosta, grazie alle sue acque dolcissime, quelle quasi certamente dell’odierna “Favara”, che, attraverso un canale naturale, arrivavano fino a mare, scorrendo in prossimità dell’attuale “Castello Cupane”. Ciò è dimostrato anche dal fatto che lo stesso Cicerone, nel Libro VII delle Verrine, riferisce del porto commerciale e militare di Apollonia, che sorgeva in quel tempo sul “Monte Vecchio”, nel territorio dell’odierno paese di San Fratello, quale base per le imbarcazioni che difendevano la costa: il “Carricatorum Aquarium Dulcium”. E qui è il caso di citare anche Diodoro Siculo, che così designa il nostro sito: “Aque Dolci cum taberna hospitatoria”.
In questo contesto, però, se è vero, come è vero, che la storia ha un senso e che la storia siamo noi, nella considerazione, principalmente, che il nome di Acquedolci è connesso a un lavoro produttivo quale fu, per diversi secoli, quello della canna da zucchero, mi sembrò ovvio che nello Stemma venisse rappresentato. Una Comunità è chiamata a custodire la sua memoria, attraverso quell’opera di “coscientizzazione”, che ci consente di conoscere il passato, capire il presente e sapere progettare il futuro. Il richiamo della canna, quindi, ha un suo valore di attualità e di dinamismo etnostorico, perché ogni generazione è chiamata a interrogarsi in ordine alla propria realizzazione, attraverso il lavoro, che diviene non solo mezzo di sussistenza, ma come enunciato o connotazione di una dimensione essenziale dell’essere in uno specifico contesto storico.
In questo senso, la grafica dello stemma evidenzia delle parole non scritte, che per l’occasione desidero fare emergere. La prima parola è il LAVORO, fondamentale per coltivare le piante e renderle produttive; la seconda è il PROGRESSO, connesso e conseguenziale allo stesso lavoro, come premessa per la convivenza civile. Le canne rigogliose e fiorite alludono al buon lavoro condotto per portarle a quello stato, da cui discende la produttività dello zucchero, sia come qualità sia come quantità; e tutto ciò, di per sé, porta ricchezza e, quindi, anche progresso. Inoltre, nella simbologia della grafica dello stemma, e non a caso, emergono altre parole non scritte; e, tra queste, una in particolare: ed è la LIBERTÀ, rappresentata dal mare. È il Mar Tirreno che lambisce il territorio di Acquedolci, ma il mare è anche il simbolo della Libertà. E qui mi vengono in mente le parole sublimi di Charles Baudelaire, che, nella sua Opera “I fiori del male”, così parla del mare: “Sempre il mare, uomo libero, amerai! Perché il mare è il tuo specchio: tu contempli nell’infinito svolgersi dell’onda l’anima tua, e un abisso è il tuo spirito, non meno amaro”. La Libertà: è il “maggior dono”, come dice Dante Alighieri, che rispecchia Dio stesso ed è il presupposto dell’amore; Dio, infatti, ci ha fatti liberi per poterlo amare, per amarci tra di noi e per amare la stessa natura, e cantarla. Infatti, un detto di Filostrato dice che “L’usignolo in gabbia non canta”. Il lembo di mare, quindi, con tanto azzurro, ha questa particolare connotazione.
E poi, perché le canne sono quattro? Anche questa non è stata una scelta casuale; perché sono quattro i punti cardinali: Nord, Sud, Est, Ovest. Nel senso che lo zucchero, ricavato dalle canne, è un alimento essenziale nella vita di tutti gli uomini del mondo, in tutte le sue direzioni, senza alcuna differenza. È un alimento primario e, come tale, un ottimo strumento di commercio e di ricchezza, a cui è anche connesso il benessere della popolazione che lo produce. Lo zucchero da canna fu davvero per diversi secoli, per i nostri antenati del “Villaggio delle Acque Dolci”, la principale fonte di sostentamento e di commercio, da cui poi si irradiava in tutte le direzioni del territorio isolano e dello stesso bacino del Mediterraneo: i “pani di zucchero di Acquedolci” erano rinomati al Nord come al Sud, in Oriente come in Occidente.
Ma le canne sono ancora quattro per un’altra ragione simbolica e culturale, perché sono quattro le virtù cardinali, e, cioè: “PRUDENZA, GIUSTIZIA, FORTEZZA, TEMPERANZA”. La cui acquisizione, che costituisce un travaglio permanente, è nel segno del perfezionamento dell’uomo, premessa essenziale per la stessa vita comunitaria, non nel senso dell’umanesimo greco, ma principalmente come umanesimo cristiano, nel senso che Dio vuole unire gli uomini a sé e tra di loro, e questa comunicazione esige il loro progresso morale. Ed è, questo, un progresso dinamico, che investe tutte le generazioni, ma che riguarda singolarmente ciascuno di noi, in ogni momento della propria vita, tenendo presente che io non sono libero, ma divengo libero, nella misura in cui mi riconosco nel valore assoluto di una norma. Ieri, oggi, sempre! Il nostro modello di cristiani, in questo senso, è il Vangelo, ma mi piace citare anche Cicerone, maestro di democrazia: “Servi Legis sumus ut liberi possimus esse”, che in maniera libera e forte così traduco: “Schiavi della Legge per essere liberi”! L’uomo è fantasia e creatività: ecco perché le canne dello Stemma e del Gonfalone sono quattro!
Nell’analisi della grafica del nostro Stemma, c’è ancora un ulteriore elemento da dovere spiegare ed è dato dal fondo dorato retrostante le canne. Non è un riempitivo di colore per fare emergere le canne; vuole, invece, simboleggiare il sole, da cui discende ogni forma di vita: la nostra stessa vita, come quella delle natura e, quindi, anche delle canne da zucchero. È la luce che ci consente il vedere, è il fondo dorato di tutte le meraviglie esistenti, dal prato fiorito agli imponenti cedri del Libano, dalle distese marine al soffio impetuoso del vento, che è il respiro di Dio. Senza luce non c’è vita, né splende la natura, né cantano gli uccelli. È l’ “ALME SOL”, è il “Sole fecondo”, datore della vita, che “col carro ardente porti e nascondi il giorno, e nuovo e antico rinasci” (“Alme sol, curru nitido diem qui promis et celas aliusque et idem nasceris”), come lo canta nel celebre “CARMEN SAECULARE” Quinto Orazio Flacco.
Il tratto dorato posto sullo sfondo della Stemma allude anche al rapporto tra il sole e la natura: esso la illumina, la protegge e le dà la vita, ma non la brucia. Che meraviglia! Il sole è umile, come è Dio con gli uomini. La luce non invadente, quasi secondaria, vuole essere, nello stesso tempo, figura dell’alba, come inizio di un nuovo giorno. Quando giunge la sera e incalza la notte, la speranza e tutte le nostre attese sono riposte nel ritorno dell’alba. E l’ALBA, come tale, la considero quale acronimo di alcune parole chiave: ALZATI, LAVORA, BENEDICI, ALLEATI.
A come ALZATI: perché non possiamo stare con le mani in mano; siamo stati chiamati, nella libertà, ad essere tutti protagonisti nel proprio tempo e ad essere partecipi della creazione, che tuttora è in corso di svolgimento, usando il discernimento, posti come davanti a un bivio, di optare sempre per il bene.
L come LAVORA: Il lavoro non è solo mezzo di sussistenza, esso coincide principalmente con la propria realizzazione, nel sapere accettare la vita, secondo quanto è scritto nella Bibbia, principalmente come diuturno combattimento, per il trionfo del bene e del bello, della luce sulle tenebre.
B come BENEDICI: per dire che dobbiamo rendere lode a Dio, e ringraziarLo, per il dono della vita, per il ruolo attivo che ci riserva nel tempo presente e per la nostra destinazione verso l’eternità, come trionfo della “Gerusalemme celeste”, nella prospettiva di “Cieli Nuovi e Terra Nuova”. Che progetto! Tuttavia, non ce ne rendiamo conto e non eleviamo a Lui la nostra lode. È Dio, è soltanto Lui, rivelatosi per mezzo di Gesù Cristo e con la potenza dello Spirito Santo, il Creatore, il Grande Architetto dell’Universo, l’unico e vero Artefice della storia! È, questa, la Buona Notizia, il Vangelo, cioè, la premura della Chiesa, che spesso disattendiamo, anche se non mancano richiami forti e incisivi come quello di Dante Alighieri, che qui riporto: “Considerate la vostra semenza: – fatti non foste a viver come bruti, – ma per seguir virtute e canoscenza”.
A come ALLEATI. L’unione, cioè, fa la forza, adoperandoci per essere tra tanti una cosa sola, con spirito di fraternità. In questo senso, da idealista, ho latinizzato un mio motto come sogno da realizzare, recuperando in parte un pensiero di Cicerone “E pluribus unum”. E, cioè: “Unus orbis, unum somnium: e pluribus unum”,“Un solo mondo, un solo sogno: essere tra tanti una cosa sola”. Oltretutto, la legge che governa la stessa vita è una legge di socialità. Una qualsiasi struttura vivente in natura sussiste, rimane in vita, cioè, solo se le parti la costituiscono interagiscono tra di loro in un rapporto armonico. Una grande lezione per noi, come si legge nella stessa Bibbia: “I cieli narrano la gloria di Dio e ne predicano la giustizia”. In questo contesto, mi sembra opportuno citare anche il grande spiritualista John Donne, la cui riflessione, che qui riprendo, mi sembra quanto mai opportuna e calzante: “Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità: e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te!”. Questa, quindi, la mia particolare lettura del fondo dorato dello Stemma, connessa alla parola ALBA, come tale e come acronimo.
In sostanza, il fondo dorato rispecchia la luce, che è poi il primo atto di Dio creatore ed ha, come tale, una forte connotazione di trascendenza, nel senso che il suo riflesso luminoso allude a un segno visibile del Dio invisibile, come si legge ancora nella Bibbia: “Deus lux est et lucem inhabitat inacessibilem”; e, cioè: “Dio è luce e abita una luce inaccessibile”. Nella luce, per di più, c’è un richiamo dell’arcobaleno, universalmente riconosciuto come segno di pace, oltre a rappresentare la storia di un’alleanza tra Dio e Noè, e, quindi, con tutta l’umanità, come patto d’amore, di prosperità e di pace. Perciò, dalla grafica dello Stemma emergono altre tre parole non scritte, in aggiunta a quelle già evidenziate, rappresentate, appunto, dal fondo dorato, e sono queste: AMORE, PROSPERITÀ E PACE.
Ora, per un fatto conoscitivo e culturale, vorrei aggiungere questo ulteriore approfondimento. Come è ben noto, l’arcobaleno, sul piano più strettamente scientifico, rappresenta i colori dello spettro solare, che sono sette. E qui vorrei sottolineare che, con riferimento alla Bibbia, come il tre e il dodici, anche il sette è un altro numero profetico: vuole esprimere la pienezza, la totalità. E poi, guarda caso, sono pure sette le note musicali, le virtù cardinali e teologali, i sette sacramenti, le sette opere di misericordia corporale, le sette opere di misericordia spirituale e, in modo particolare, i sette Doni dello Spirito Santo. Proprio con riferimento allo Spirito Santo, che, per la nostra fede cristiana, è il nostro Paraclito, il nostro Consolatore, per dire che nei sette colori dell’arcobaleno si riflettono i suoi sette doni: Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza e Timor di Dio.
Debbo annotare, per la verità, che questo mio scritto nasce da una circostanza fortuita, qual è stata l’iniziativa di fare conoscere due culture agrarie, simbolo del territorio di Acquedolci, quelle, cioè, della canna da zucchero e dell’agave sisalana. Iniziativa, questa, davvero encomiabile, curata, con impareggiabile entusiasmo, da Rosario Paolo Salanitro, svoltasi l’11 febbraio 2011, con il coinvolgimento delle scuole locali, Elementare e Media, e dell’Istituto Agrario di Capo d’Orlando, fruendo del più ampio sostegno da parte dello stesso Sindaco di Acquedolci, Avv. Ciro Gallo. In particolare, nella predetta giornata, ci fu una tavola rotonda sulle due colture, molto interessante e partecipata, svoltasi nella Sala consiliare del Comune. Successivamente, nella Villa antistante il Municipio, furono messe a dimora alcune piantine di agave sisalana e di canna da zucchero.
Questo evento fu per me di grande stimolo a scrivere la storia del nostro stemma comunale. Così, a distanza di tanti anni, con questo documento, lascio una memoria scritta, come fatto anche doveroso, per dire di quella che fu un’ideazione, ma anche una scelta, e a cura dello “Studio Araldico” di Genova e della stessa Amministrazione comunale del tempo, senza dover sottendere un fatto essenziale per il mio credo culturale: è l’uomo che propone, ma è Dio che dispone. È Dio il padrone della storia! Non dimentichiamolo! Quando esce l’acqua dal rubinetto, se il rubinetto potesse parlare, direbbe che l’acqua è sua; ma non è vero! Essa proviene sempre da una sorgente. E così sono tutte le nostre opere! Senza quella sorgente, eterna e invisibile, che è il soffio di Dio in noi, la nostra spiritualità, la nostra capacità, cioè, di intendere e di volere, niente mai avremmo potuto realizzare di tutto quello che siamo e progettiamo. Da questo emerge che se siamo in grado di esprimerci antropomorficamente (in termini umani) di Dio, ciò è connesso al dono stesso di Dio, che ci ha fatti teomorfi, capaci e desiderosi, cioè, di Lui e del suo amore.
Eppure, non sappiamo mai dire grazie! In una inversione di rotta, per uscire da una dimensione materialistica della vita, in una presa di coscienza che tutto è dono di Dio, come la vita e le nostre stesse opere, mi auguro che in tutto il mondo e tra di noi maturi una tendenza nuova come “Civiltà dell’amore”, con spirito di ringraziamento verso Dio e di rapporti costruttivi e amorevoli tra noi. E in questo senso, tra i tanti motti che ho lasciato all’attenzione delle nuove generazioni, come è dato vedere all’ingresso della Sala consiliare del nostro Municipio, che ho fatto incidere su medaglioni di marmo, in occasione del trentennale e del quarantennale dell’Autonomia del Comune di Acquedolci, oltre quello di Cicerone che ho citato, per il cinquantennale, per chi ci sarà, vorrei che fosse inciso, sempre su marmo, quest’altro motto: “Unus orbis, unum somnium: e pluribus unum”, di cui ho già riferito.
A corollario di questo scritto, desidero aggiungere qualche altra annotazione. Intanto, il nome stesso di Acquedolci, sorto in epoca romana, come già detto, ha di per sé un significato quasi profetico e beneaugurante, perché l’acqua è la fonte stessa della vita e poi, se vi si aggiunge la dolcezza, non c’è proprio niente di meglio. Con riferimento a tutto ciò, è da rimarcare che l’acqua che sgorga dalla roccia, con riferimento alla storia di Mosè, allude a Gesù Cristo, che per noi cristiani – e ne siamo orgogliosi – è l’acqua viva discesa dal cielo, come fonte della Grazia, che disseta in eterno. E guarda caso, le nostre acque e, in aggiunta, dolci, provengono dalla Favara (nome di origine araba che significa “sorgente”) e sgorgano proprio dal monte Castellaro, in prossimità della Grotta di San Teodoro. Possiamo, quindi, considerarci fortunati di poter legare le nostre origini e la nostra appartenenza alle acque sgorgate dal Monte, al bel nome di Acquedolci.
Altro elemento che vorrei sottolineare in ordine alla storia dello Stemma è dato dal fatto che le quattro canne, simbolo delle virtù cardinali, vogliono essere di grande richiamo nell’oggi di ogni generazione, perché una cittadinanza può essere dinamica, laboriosa, feconda, soltanto se ha una grande forza morale, che discende proprio dalla pratica della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza, nella libertà e nell’esercizio della democrazia. Così soltanto, nella conduzione della vita
democratica, per il governo del paese, possono crearsi le premesse perché tra amministrati e amministratori si stabilisca un attivismo bilaterale, quanto mai salutare, al punto che i cittadini non chiedono agli amministratori ciò che essi possono fare per loro, ma ciò che i cittadini stessi possono fare per gli amministratori. È una presa di coscienza quanto mai importante, anche perché ciascuno di noi, in democrazia, deve considerarsi come un elemento di un ingranaggio. Infatti, se in un orologio si toglie anche la vite più piccola, l’orologio si blocca e non funziona più. Da tutto ciò deriva una parola chiave ed è questa: “coscientizzazione”!
Prendere coscienza della nostra condizione esistenziale, per capire cosa siamo, da dove veniamo e dove andiamo, e, quindi, della nostra partecipazione alla vita democratica, nell’assunzione di un principio, a cui, nel mio piccolo, mi sono sempre ispirato, anche nel tempo in cui sono stato partecipe dell’amministrazione di Acquedolci. Il principio morale è questo: delle cose mie private sono proprietario, delle cose pubbliche sono comproprietario; ed è questa la molla che ci fa partecipi della vita attiva di una Comunità, come sanno fare meglio di noi, anche se istintivamente, le api e le formiche. Ma l’uomo è qualcosa di più, solo se si fa guidare, nell’esercizio della sua libertà, da quella sorgente di luce, di vita, di forza, che proviene da Dio, che noi abbiamo conosciuto per mezzo di Gesù Cristo! La sua luce, poi, illumina la nostra mente e la sua forza sostiene i nostri passi! Un evento straordinario e storico, tanto è vero che abbiamo cominciato a contare gli anni dalla sua venuta, per un nuovo ordine dei secoli, come emerge, in chiave quasi profetica, dalla IV Ecloga delle Bucoliche di Virgilio. E noi, in questo senso, come giustamente annotava Benedetto Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Quindi: coscientizzazione e umanizzazione, come centralità dell’uomo e della sua coscienza.
In questo contesto, ritengo di dover rimarcare che, in ordine al dono della vita e della sua sacralità, dovremmo prendere sempre più consapevolezza che noi tutti siamo non padroni, ma soltanto usufruttuari e responsabili dei talenti ricevuti in gestione. Di questa riflessione, io stesso non posso che considerarmi il primo scolaro. Di fronte a questi richiami, cioè, che provengono dalla nostra intimità e dalla nostra coscienza, che è voce di Dio, non possiamo non essere che in posizione di ascolto. E, così, dovremmo imparare a capire e a sapere ripetere le parole di Samuele: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta”. Sempre: con grande umiltà e in ogni momento della nostra vita! E qui ripenso alle parole di Alessandro Manzoni, tratte da “I Promessi Sposi”: “Bisognerebbe pensare a far del bene, più che allo star bene; si finirebbe con lo star meglio”. Oltre tutto, la cupidigia umana non paga mai: si conclude in una disfatta! Provare per credere: il Vangelo ha sempre ragione!
Vorrei aggiungere ancora una nota, sempre per quanto riguarda la storia del nostro Stemma, ed è questa. A onor del vero, l’iniziativa per l’acquisizione dello Stemma era stata già avviata dall’Amministrazione comunale nel 1976, con nota del 14 ottobre, prot. n. 3768, a cui lo Studio Araldico di Genova rispondeva con altra nota del 2.12.1976, ma il tutto, successivamente, si arenava, quando, con nota del 17.5.1977, prot. n.2017, il Comune di Acquedolci comunicava di non disporre della somma richiesta per la concessione dello Stemma e del Gonfalone. Questione di scelte, in ordine anche all’impostazione di bilancio, per reperire i fondi necessari. Ma voglio esimermi da qualsiasi commento: le cose andarono così.
Si vede che doveva toccare a noi giovani amministratori del 1978 riproporre la questione dello Stemma e del Gonfalone, come, in apertura di questo scritto, ho ampiamente illustrato. Per la cronaca, la pratica, dopo l’atto deliberativo della Giunta – della quale facevo parte – del 7.10.1980, provvedimento n. 199, veniva inoltrata allo Studio Araldico di Genova con nota del 13.10.1980, prot. n. 6856, sottoscritta dal Sindaco del tempo, Dr. Giuseppe Terranova, a cui va ascritto anche il merito, per la sua apertura democratica, di avermi concesso la fiducia per la definizione di quella che poi è stata la nostra proposta, andata definitivamente in porto con Decreto del Presidente della Repubblica del 15.12.1981. Fu così che, per oscure coincidenze, che sfuggono a noi miseri mortali e cavernicoli, Acquedolci, al posto della solita aquila o della solita torre, come ritengo sarebbe stato e come è di tanti stemmi locali, nel riappropriarsi, con determinazione, della propria storia, scelse l’attuale Stemma, di cui potere andare orgogliosi, nei termini e nelle prospettive che ho cercato di evidenziare.
Fra l’altro, desidero aggiungere che non mi pare che le canne da zucchero siano riportate in altri stemmi comunali, non sono in Italia, ma neanche in quei Paesi tropicali dove ancora oggi esse si coltivano per l’estrazione dello zucchero. Acquedolci, con questa sua scelta ha onorato non solo la sua storia passata, ma quella dell’intera Sicilia, nella considerazione che questa coltura fu ampiamente diffusa su tutto il nostro territorio isolano. Lo storico Ugo Falcando ecco quanto ci tramanda: “Se tu volgi lo sguardo, ti si offrirà grande estensione di canne meravigliose, le quali sono chiamate dagli abitanti col nome di “canne di miele”, dalla dolcezza del succo che contengono”.
La coltivazione delle canne da zucchero trovò, quindi, terreno fertile lungo le coste di tutta la Sicilia, persino a Palermo, nella sua rinomata “Conca d’oro”. A titolo informativo, tra i tanti feudatari siciliani dediti a questa coltivazione, ne vorrei citare soltanto due, territorialmente a noi vicini e famosi: Vincenzo Gallego del Feudo di Militello e Aldonza Larcan del Feudo di San Filadelfio, che si estendeva, quest’ultimo, da Capizzi, Cesarò e San Fratello sino al “Villaggio delle Acque Dolci”, nella zona dove ebbero la loro costruzione la “Torre” e il “Castello Cupane”, al centro della cosiddetta “Marina Vecchia”, cuore storico dell’odierna Acquedolci.
Una nota un po’ fuori sacco. Nel riprendere le carte del tempo per documentare la storia del nostro Stemma ho trovato anche una lettera, pervenuta al Comune il 7.10.1980, di una ragazza di dodici anni, a quel tempo, Angela Malaguti di Crevalcore (Bologna), che allora frequentava la II media del suo paese, la quale aveva l’hobby di collezionare gli Stemmi di ogni Comune e che chiedeva di avere una copia anche di quello di Acquedolci. Una richiesta interessante ed encomiabile, di per sé anche onerosa, perché la ragazza, come scriveva, era figlia di operai, a cui si rispondeva, da parte del Sindaco, che, a quella data, il Comune non disponeva ancora di uno Stemma, con riserva di inviarne una copia non appena il Comune ne sarebbe entrato in possesso.
Da quella data a quando il Comune ebbe il suo Stemma passò oltre un anno e ritengo che, a memoria, quella nota sia rimasta inevasa, per mera distrazione. Ora, a distanza di tanti anni, – e il fatto di per sé susciterebbe senz’altro stupore – si potrebbe anche soddisfare la predetta richiesta, con l’aggiunta di una copia della presente relazione, la cui dettagliata esposizione risponde anche a un desiderio conoscitivo della nostra storia. Non è mai troppo tardi! Meglio così! La richiesta della predetta ragazza è meritevole, nel nostro oggi, di tutta la nostra attenzione, perché essa costituisce un modello da dovere additare alle nuove generazioni, perché facciano altrettanto e perché possano amare sempre di più non soltanto la storia locale, ma anche quella di tutta l’Italia. Una ragione, questa, per cui ho ritenuto opportuno riprendere la storia della predetta lettera e inserirla in questa relazione.
Prima di chiudere, mi sia consentita un’ultima nota, come proposta operativa per il futuro di Acquedolci. E, in questo senso, non dimentichiamo, come ci ha insegnato Giovanni Falcone, che “I sogni camminano con le gambe degli uomini”, o, come amava ripetere Helder Camara, il rinomato Vescovo di Recife, che “Se io sogno da solo è solo un sogno, ma se siamo in tanti a sognare è la realtà che comincia a svilupparsi”. In questo senso, mi viene di pensare anche al Castello Cupane, con l’augurio che, finalmente, possa essere totalmente recuperato, per la sua più ampia utilizzazione come struttura socio–culturale polivalente, oltre che storica.
Qual è, dunque, la mia proposta? Potere scommettere, con l’apporto degli agricoltori locali, dopo alcuni secoli, sul rilancio della coltivazione della canna da zucchero ad Acquedolci, non tanto per l’estrazione dello zucchero, che non sarebbe più rispondente alla competizione sul piano dei mercati, quanto per il RHUM, l’acquavite che si ottiene dalla distillazione della melassa di canna da zucchero fermentata. È un idea! Con la prospettiva di poterlo commercializzare con i Paesi del Nord Europa, o, in particolare, con la Gran Bretagna, dove, con riferimento anche ai Paesi del COMMONWEALTH, il RHUM trova largo consumo. In questo caso, si potrebbe pensare anche a un gemellaggio con una cittadina del predetto Paese: mi viene in mente e proporrei PLYMOUTH, per la sua singolare storia marinara, legata soprattutto ai PADRI PELLEGRINI (Pilgrim Fathers), a cui va ascritto il merito di essere stati gli ispiratori dello “Stato di diritto” nel mondo, con il famoso documento del “CONTRATTO DEL MAYFLOWER” del 1620, a cominciare dagli Stati Uniti d’America, di cui sono stati i fondatori.
Un gemellaggio con Plymouth, quindi, sarebbe proprio di grande interesse, anche per approfondire da parte nostra la conoscenza della lingua inglese, divenuta ormai il codice di comunicazione tra tutti i popoli. Mi preme sottolineare che nel predetto contratto, per la prima volta, in assoluto, si sancisce il principio “Sub lege Rex”, con cui si stabiliva che anche il Re deve sottostare alla legge. È il primato della Legge contro il potere assoluto, esercitato da tutti i regnanti, fin dalle origini della costituzione degli Stati, espresso nel motto “Sub Rege Lex”, e, cioè, “La legge deve sottostare al Re, a tal punto che Luigi XIV, il famoso “Re Sole”, poteva dire “Lo Stato sono io”.
Quella dei Padri Pellegrini è stata la più silenziosa, ma al tempo stesso la più grande rivoluzione di tutti i tempi. E poi, un’altra nota, di grande rilevanza: i Padri Pellegrini hanno anche il merito di avere organizzato, in chiave interculturale, la più grande festa di rendimento di grazie verso la maestà di Dio creatore e pantocratore, come Colui che regge il mondo ed è anche la sorgente di tutti gli esseri viventi. Questa festa, che prende il nome di “THANKSGIVING DAY” fu realizzata per la prima volta nel quarto giovedì del mese di novembre del 1621 e così è continuata, da quell’anno fino ai giorni nostri; ed essa è negli Stati Uniti, ancora oggi, una delle più importanti feste nazionali. Un modello, questo, per tutti noi, per prendere coscienza degli innumeri doni del Signore e per imparare a dire grazie.
Ho riflettuto come chiamare questo nostro RHUM: potrebbe avere la denominazione di “San Teodoro”, a ricordo della nostra Grotta, altro bene da valorizzare e da far conoscere, per i suoi reperti preistorici. Sogni? Ma se non si sogna non si va avanti. Ripeto: fantasia e creatività! Fu così che nacquero lo Stemma e il Gonfalone di Acquedolci. Occorre sempre pensare in grande, per progettare il nostro futuro, per ciò che ancora ci resta di poter fare e, soprattutto, per le nuove generazioni. In aggiunta alla fantasia e alla creatività, c’è una parola chiave da dovere aggiungere ed è questa: il coraggio! Il coraggio, cioè, di essere innovativi, di saper demolire scelte e strutture obsolete, per averne delle nuove, più rispondenti alle esigenze del nostro tempo. E qui è il caso di citare il famoso detto latino: “Audaces Fortuna iuvat” e, cioè: “La fortuna aiuta gli audaci”, che ha riscontri in diversi autori, tra i quali Terenzio, Cicerone, Plinio il Giovane, anche se personalmente propendo per il verso virgiliano, tratto dall’Eneide, che così recita: “Audentes Fortuna iuvat”, per dire che “La Fortuna aiuta coloro che sanno osare”. Significa che è necessaria nella vita una qualità permanente più che un coraggio scriteriato e pernicioso. Quindi: fantasia, creatività e, soprattutto, coraggio!
A margine, sempre in questo contesto, desidero citare due grandi uomini politici del secolo scorso: Alcide De Gasperi, il Governatore per eccellenza della rinascita italiana, dopo la Seconda Guerra Mondiale, che si esprimeva in questi termini: “Coraggio, passione, competenza”; Franklin Delado Rooselvet, Presidente degli Stati Uniti d’America dei difficili anni trenta, che amava ripetere: “L’unica cosa di cui avere paura è la paura”.
In questi termini, penso ai giovani, i quali, come problematicamente ci ricorda San Luigi Orione, possono essere “la tempesta o il sole del domani”; e così parlo di Acquedolci, dove ripongo tanti miei affetti atavici e familiari, dove vivono i miei nipotini, Alfonso e Maria Antonietta, quasi fiori novelli nel giardino della vita, ai quali desidero dedicare questo mio breve scritto. Il nostro senso di appartenenza locale, però, è connesso anche a quella dimensione più ampia di italianità, nella considerazione anche di quel passaggio dell’Inno di Mameli “Dall’Alpi a Sicilia dovunque è Legnano”, per dire che siamo parte di un tutto, che siamo tutti italiani.
Prima di chiudere, mi sia consentita una doverosa annotazione circa la data riportata sul frontespizio di questo documento: non è casuale. Ho lavorato alla sua stesura nella primavera del 2012, ma il fatto di apporvi una data ben precisa, e, cioè, quella del 17 aprile 2012, vuole avere un significato particolare, nel quadro della storia di Acquedolci e nella ricorrenza di un evento: ottant’anni fa, infatti, il 17 aprile del 1932 moriva a Palermo, in seguito a intervento chirurgico, il Generale Antonino Di Giorgio, nostro concittadino, tanto legato ad Acquedolci e al suo progresso, oltre al fatto di essere stato un grande nella Storia d’Italia del Primo Novecento. Con riferimento alla sua attività di Parlamentare, svoltasi tra il 1913 e il 1921, partecipò alla vita politica in prima persona e con grande slancio patriottico, anche nelle vesti di Ministro della guerra, tra il 1924 e il 1925, considerandosi sempre come un militare prestato alla politica.
Il 17 aprile 2012, quindi, vuole fare riferimento alla ricorrenza degli ottant’anni dalla sua scomparsa, come data celebrativa di un personaggio illustre, il cui carattere a la cui dirittura morale si possono ben riassumere nel motto latino: “Frangar non flectar”, “Mi spezzo, ma non mi piego”. Nella sua vita, infatti, non si piegò mai di fronte a nessuno. Riscosse sempre lusinghieri successi: fu ammirato come soldato persino da Rommel, Tenente tedesco a Caporetto e poi rinomato Generale nella Seconda guerra mondiale, mentre come scrittore ricevette una nota di encomio da parte del famoso Giosuè Carducci.
Di lui così ha scritto Don Giovanni Minozzi nell’Opuscolo “Mater Orphanorum”: “Uno degli uomini più forti che io abbia conosciuto. Ingegno scintillante, tutto prontezza vivacissima, avea la serenità imperturbata degli spiriti magni. Era un fascinatore di cuori. Fu soldato per vocazione decisa, irresistibile. Sapeva comandare e obbedire con la stessa fermezza. S’adombrava d’ogni ingiustizia, anche minima, anche apparente, e scattava, sdegnato, alla protesta, vivacemente, stizzosamente”.
“Carattere fiero, nobile, risolutissimo: nacque così. La sua dirittura inflessibile non gli permise di patteggiare, di perder tempo con alcuno. Era per questo sempre veramente impolitico”. In questa memoria, che riprendo per sommi capi, la data della sua scomparsa è, quindi, un evento da ricordare, perché il Generale Antonino Di Giorgio è davvero da considerare, con un pizzico d’orgoglio da parte nostra, un personaggio storico, da ricordare e in cui noi tutti dovremmo ritrovare un modello di vita, da additare alle nuove generazioni della nostra Acquedolci.
Chiusa questa parentesi, sul piano emotivo, infine, come emerge da due mie poesie dedicate ad Acquedolci, dove ho trascorso i miei migliori anni, quelli giovanili, riprendo un concetto chiave, e, cioè: “Il tuo cuore è la dov’è il tuo tesoro”. Acquedolci ha per me una tale carica di affetti di una così grande portata da considerarlo proprio un tesoro: così, infatti, si legge in San Matteo (6,21): “Ubi enim est thesaurus tuus, ibi est et cor tuum”. Infine, proprio per rispondere alle “ragioni del cuore che la mente non intende”, come si legge nell’opera “I Pensieri” di Blaise Pascal, vorrei qui citare la chiusa della mia poesia, intitolata, appunto, “ACQUEDOLCI”: “Possano venire per te – giorni più luminosi – dei nostri, assecondando – del progresso le spinte, – avendo cura di seminare, – anche se non sa mai – chi potrà raccogliere, – perché tutti, per tutto il tempo – che ci è dato, dovremmo – imparare a lasciare il mondo – un po’ migliore di come – l’abbiamo trovato: – e fra mille anni, – chi farà la tua storia – dovrà sapere che quel presente, – qualsiasi presente – ha un cuore antico; – l’uomo non muore – e noi siamo sempre vivi, – il nostro cuore è qui: – eredita tu le nostre speranze, – i nostri pensieri, i nostri sogni, – per farne realtà nuove, – più belle e splendenti.
Vorrei anche aggiungere che la predetta poesia, a suo tempo, l’ho voluta dedicare “Alla gente di Acquedolci” con queste semplici e sentite parole, che qui riporto: “Con tutto l’affetto, con tutta la passione – di un idealista, di un sognatore, – che, nel suo piccolo, ha sempre agognato – grandi realizzazioni per Acquedolci, – e l’ideazione dello Stemma comunale – ne è il segno più emblematico, – nella chiara consapevolezza che le idee, – i sogni camminano con le gambe degli uomini – e che chi sogna ad occhi aperti – ritrova emozioni, stupore, meraviglia – e vede cose incantevoli, seducenti, – che sfuggono a chi sogna solo di notte”.
A questo punto, per recondita ispirazione, nella certezza di fare cosa gradita al lettore, cioè a tutti gli acquedolcesi di oggi, di ieri e di domani, adotto la scelta di riportarla integralmente in allegato a questo documento, che di per sé, indirettamente, non fa altro che raccontare un po’ di storia della nostra Acquedolci. È una poesia in versi sciolti, scaturita dalle ragioni del cuore, che ho composto verso la fine degli anni novanta. La datazione che riporto in calce alla stessa poesia ha una ben precisa motivazione: il 21 dicembre 1998 vuole essere il ricordo dello stesso giorno del 1969, allorché, in grande esultanza per l’autonomia ottenuta il 12 novembre 1969, si volle festeggiare, con grande partecipazione di popolo, il raggiungimento di un traguardo, tanto ambito quanto sofferto.
Ricordo che i festeggiamenti ebbero inizio, proprio nel giorno del 21 dicembre 1969, alle ore 10,30, nei locali del Palazzo Municipale, con una straripante partecipazione di popolo. Era un evento storico! Un risultato che veniva dopo un travagliato cammino, avviato fin dal 1956, quando si costituisce il “Comitato pro autonomia”, a cui farà seguito, nel 1958, nei locali del Cinema Aurora, un’assemblea cittadina, per la raccolta di fondi e la sottoscrizione per l’Autonomia, nel corso della quale si provvide anche all’elezione del Presidente del Comitato, nella persona dell’Arciprete Antonino Di Paci.
Il paese, quel giorno, in segno di festa, fu inondato di bandierine tricolori, realizzate materialmente da Pippo Spina. A ciascuno il suo! Da rilevare un fatto significativo, che connota la nostra cultura e la nostra fede religiosa: i discorsi celebrativi si fecero al Municipio, però la festa ebbe il suo culmine nella Chiesa Madre, non tanto perché l’Arciprete Antonino Di Paci fosse il Presidente del “Comitato per l’Autonomia” quanto come atto di ringraziamento verso Dio, da cui riceviamo ogni bene e che resta pur sempre l’Artefice primordiale della storia. Le campane della Chiesa suonarono a festa e a lungo quel giorno, come erano risuonate nella tarda serata del 12 novembre 1969 (intorno alle ore 23,00), e in particolare dietro espresso invito del Magistrato Filippo Lo Turco, deciso sostenitore dell’Autonomia, allorché rientrarono ad Acquedolci l’Arciprete Di Paci, felicissimo, e una folta delegazione di acquedolcesi al suo seguito, dopo che quel giorno l’Assemblea Regionale Siciliana votò, all’unanimità dei presenti, la Legge per l’Autonomia di Acquedolci.
L’Arciprete Antonino Di Paci fu, ad onor del vero, il principale protagonista dell’Autonomia di Acquedolci e ritengo che non sia stata casuale la scelta della data per i festeggiamenti, del 21 dicembre 1969, perché Lui era proprio nato a San Fratello il 21 dicembre del 1883. Del suo discorso, vibrante, appassionato, con la stessa tonalità dei suoi sermoni in Chiesa, tenuto quel giorno al Municipio, mi piace ricordare una sua citazione latina: “Concordia parvae res crescunt, discordia maxumae dilabuntur”. E cioè: “Con la concordia le piccole cose crescono, con la discordia le più grandi sfumano”. La gnome, genericamente riferita ai Romani, deriva, per l’esattezza da un passo del “Bellum Iugurthinum”, in cui il Re Micipsa parla ai figli Aderbole e Iemsale, e fu nell’antichità molto famosa: è citata da Seneca, San Girolamo, ripresa da Cicerone nel “De Amicitia”. È una massima sempre attuale e diffusa in tutte le lingue, in cui c’è il corrispettivo del nostro detto “L’unione fa la forza”.
E per finire, come segno d’affetto per la nostra bella Acquedolci e per la sua Gente, desidero riportare, qui unite, ancora due mie poesie: un’altra, intitolata anch’essa “Acquedolci”, non in versi sciolti come la precedente, di cui ho già detto, ma in terzine, come “Septercanto”, di cui meglio dirò in un apposito foglio illustrativo, riportato in appendice a questo scritto, e poi “Il carrubo”, in quartine. Le motivazioni e il significato di tutt’e due le poesie trovano espressione nelle note che ho riportato per ciascuna di esse al momento della mia donazione al Comune di Acquedolci. E così integralmente le riprendo, allegandole a questo stesso documento.
In aggiunta, ho voluto riportare anche un mio grafico con una scritta latina “Si bellum non vis para pacem”, e cioè: “Se non vuoi la guerra prepara la pace”. Questo motto l’ho riportato anche su un medaglione di marmo, che ho donato al Comune di Acquedolci, nel 1999, in occasione del trentennale della sua autonomia, assieme a un altro, intitolato “Homo homini Deus”, “L’uomo è Dio per l’uomo”: tutt’e due sono appesi alla parete all’ingresso della “Sala consiliare”, assieme, oggi, ad altri due medaglioni, sempre con scritte latine, di cui ho fatto dono al Comune, nel 2009, nella ricorrenza del quarantennale dell’autonomia di Acquedolci. Trascuro qui di parlare di questi medaglioni, rimandando il lettore a rivedere quanto ho scritto in un apposito opuscolo, diffuso dall’Amministrazione comunale di Acquedolci in occasione delle celebrazioni del quarantennale della sua autonomia, se ha voglia di assecondare la sua curiosità!
Perché, dunque, questa mia grafica con i colori dell’arcobaleno e con la predetta scritta latina? Vuole essere, alla fine, nel contesto di questo documento, che racconta anche un poco della storia della nostra Acquedolci, l’annuncio di un messaggio di pace: ne abbiamo sempre bisogno e, in un contesto più ampio, esso è anche il “grido di dolore” di tutti i popoli della terra, specie dei più martoriati, oggi come ieri. “Se non vuoi la guerra prepara la pace”: per dire che la pace non è un dato, ma una conquista, avendo l’umiltà di saperlo leggere alla luce del messaggio cristiano, sullo sfondo dell’arcobaleno, che richiama, di per sé, la biblica alleanza tra Dio e gli uomini, dopo il diluvio universale. Le ali distese del volatile sovrastanti la grafica, che possono essere quelle di una colomba, per rifarci alla storia di Noè, vogliono sostanzialmente dire, calandoci nella nostra storia personale, come in quella dei popoli, che il perdono e l’amore sono le ali della pace.
Riprendendo quanto scrivevo in precedenza, quando dicevo dell’arcobaleno e dei richiami biblici connessi al numero profetico del “sette”, mi piace aggiungere questa ulteriore sottolineatura. Per dire che nei sette colori dell’arcobaleno si riflettono i sette “doni” dello Spirito Santo: il rosso della “Sapienza”, l’arancione dell’ “Inteletto”, il giallo del “Consiglio”, il verde della “Fortezza”, l’azzurro della “Scienza”, l’indaco della “Pietà” e il violetto del “Timor di Dio”. Quanti significati, quindi, si assommano nell’arcobaleno! Mi auguro quindi, che l’arcobaleno possa sempre essere sempre un richiamo per ciascuno di noi e che possa splendere nella nostra vita e nella storia della nostra Acquedolci con questa considerazione che ci fa riflettere anche sulla vita come dono e, soprattutto, come impegno e realizzazione, che mutuo da una massima Baden Powell, il fondatore dello scautismo: “Ciascuno di noi dovrebbe sempre impegnarsi a lasciare il mondo un po’ migliore di come l’abbiamo trovato”.
Vogliamo riuscire in tutto questo? Impariamo a portare sempre alto nel nostro cammino il Vessillo dell’arcobaleno, per tutti i richiami che esso sottende. Impariamo, quindi, – e io sono il primo discente – a saper mettere da parte l’orgoglio imperante del mondo contemporaneo e rimettiamoci, con la più grande umiltà, all’amore, alla misericordia e all’aiuto di Dio, seguendo i suoi “Comandamenti”, che sono forza e sostegno nel nostro viaggio terreno, nel nostro pellegrinaggio di stranieri verso l’eternità e “la Patria celeste”, confidando nello Spirito Santo e in Gesù, nostro Signore, protetti dalla Vergine Maria, Madre di Dio e Madre nostra. Così, e qui cito il Vangelo di San Luca, “grazie alla tenerezza e alla misericordia di Dio, ci visiterà, in Cristo Gesù, un sole che sorge dall’alto, per risplendere su tutti noi, che stiamo nelle tenebre, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”.
Alfonso Di Giorgio