di Ciro Artale

Sin da bambino amavo ascoltare i racconti dei parenti più grandi, cercando di immaginare volti e situazioni e ho imparato col tempo anche a fare domande, senza limitarmi a ricordare le parole ma a soppesarle e associarle alle emozioni del narratore ad esse legate.
Mia nonna materna (nonna Carmelina Di Leo), in particolare, è stata la mia fonte preferita: con semplicità elencava parenti aggiungendo per ognuno un commento o un aneddoto, raccontava episodi di vita vissuta, gioie e dolori; al pianto alternava la risata di pancia e perfino rabbia, come in una recita.
Al contrario dei nonni mai conosciuti e dell’altra nonna persa presto per avere ricordi di racconti, ho avuto la fortuna di ascoltarla fino a oltre la maggiore età e nonostante la malattia e l’alzheimer il racconto è rimasto lo strumento del nostro dialogo, anche perché io avevo le chiavi della sua memoria, le domande e i nomi che accendevano i ricordi.

Purtroppo le parole non hanno mai avuto riscontro con gli oggetti e i documenti, solo raramente con le fotografie, perché la nonna da sempre aveva la brutta abitudine di disfarsi delle cose, chissà perché: le bambole americane di mamma e delle zie, le monete del Regno che mia madre raccoglieva in un barattolo nella dispensa della cucina, il “cantarano” dell’ingresso, la “libretta” della bottega, la panca di lavoro e gli attrezzi del nonno …

La famiglia di nonno Ciro (Conforto), la raccontava come se fosse la sua, e su tutte le storie più lunghe erano quelle che finivano con un lutto, che poi segnava almeno i cinque anni successivi della vita dei parenti più stretti. Me la ricordo sempre vestita di nero, anche nelle foto; lei diceva sì che era per il lutto, ma poi non sapeva ben spiegare o ricordare quale fosse l’ultimo! Così si passava dai bimbi maschi persi ancora in fasce alle tragedie di incidenti ferroviari (lo zio Filadelfio), dalla spagnola alla frana, dalle storie di emigrazione (tre sorelle e un fratello trasferiti negli Stati Uniti) alle difficoltà della guerra e agli espedienti nella gestione della bottega con le tessere annonarie (e lei “aveva solo la seconda elementare!”).
Nonostante le famiglie fossero molto numerose la mortalità in giovane età era elevata; nella famiglia di mio nonno Conforto il problema riguardò particolarmente i figli maschi. Due morirono in fasce e a fine ottobre 1918, a causa della spagnola, Francesco (di 17 mesi) e Stefano (di 17 anni), fra loro legatissimi, morirono a un giorno di distanza; per non farlo sapere al fratello maggiore il piccolo fu uscito in silenzio dalla finestra, ma il destino li volle uniti anche nella morte. La storia dell’ultimo fratello del nonno, tra tutte, mi aveva però da sempre colpito: Filadelfio Conforto.

Filadelfio era nato a San Fratello il 17 ottobre del 1910; amava la musica e sin da piccolo aveva iniziato a studiarla, tanto da suonare con successo diversi strumenti. Non sono riuscito a scoprire dove e con chi lo abbia fatto, ma so con certezza che a 18 anni suonava pianoforte, violino e almeno uno strumento a fiato.
Il padre Carmelo era un distinto artigiano, un abile calzolaio consigliere comunale a San Fratello nell’anno della frana, anche lui costretto a trasferirsi ad Acquedolci negli anni ’20 del secolo scorso. Ad Acquedolci gli fu concesso il terreno sulla strada nazionale che fa angolo con l’odierna via Gallo, dove aveva il suo laboratorio e una stanza che fino al 1935 ospitò la musica del figlio, a poca distanza dalle famose botteghe di Tripodo e Carrabotta. Molti parenti mi hanno riferito che lavorava fischiettando tutte le arie delle opere più famose, e che con l’amico farmacista Benedetto Rubino, spesso si recava a Palermo in treno per andare al teatro ad assistere agli spettacoli. Magari anche per accompagnare il figlio per i suoi studi, ma è solo una mia congettura. Filadelfio componeva musica originale e impartiva anche lezioni ai suoi compaesani; si esercitava frequentemente, allietando le serate delle persone che per ascoltarlo si sistemavano difronte casa sua, sul muretto del ponte che al tempo sorgeva in quel tratto di strada, poiché coincideva col passaggio del torrente Cruzzuluddu. A diciotto anni, seppur non ancora maggiorenni, occorreva assolvere agli obblighi di leva che fino al 1932 duravano tre anni. Nel 1928 toccò quindi anche a Filadelfio partire con destinazione Milano; qui i racconti si fanno meno chiari. Sembra che per le sue doti fu inquadrato in una fanfara militare e che addirittura arrivò a esibirsi col violino anche al Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala. Fatto sta che a causa delle ripetute marce, non quelle musicali ma quelle con le scarpe della misura sbagliata e sotto i temporali, Filadelfio si ammalò gravemente, tanto che fu prima ricoverato e poi congedato e inviato a casa in condizioni serie.
L’intervento che dovette subire alla gola gli rendeva difficile sia parlare che alimentarsi; a causa delle conseguenze deperì vistosamente e chi lo incontrava pensava che fosse colpito da tisi. La madre non si dava pace e riuscì ad avere riconosciuta una pensione a causa dei danni provocati dalla leva al figlio. Purtroppo non sono riuscito a trovare documenti presso i parenti, né sono ad oggi in possesso del foglio matricolare che potrebbe chiarire diversi dubbi. So soltanto che negli ultimi anni di vita continuò a scrivere musica e si dedicò alla costituzione della prima Banda di Acquedolci, che alla sua morte fu a lui intitolata.

Alla sua morte a soli 25 anni la madre, disperata, si faceva prendere da attacchi isterici e di autolesionismo ogni volta che vedeva qualcosa che ricordasse il figlio; i familiari dovettero prima nascondere e poi disfarsi di tutto. Sembra che il violino e alcuni libretti e componimenti siano stati conservati da una sorella, il pianoforte a coda bianco fu venduto e finì in una casa importante di Acquedolci, il resto scomparve.

Il ritrovamento di alcune fotografie e quello fortuito del secondo foglio di una sua lettera del 1934, mi hanno confermato questi ultimi passaggi e mi hanno spinto a raccontare quanto ho raccolto nel tempo perché ritengo sia meritevole di essere condiviso in quanto patrimonio immateriale della nostra comunità.

La lettera è datata 29 settembre 1934, e mancando la prima pagina non si capisce a chi fosse indirizzata (OND?); so soltanto che Filadelfio morì meno di un anno dopo, il 21 agosto del 1935, e che mia madre, nata il mese dopo, non fu festeggiata dai familiari perché essendo una bambina non avrebbe potuto prendere il nome dello zio scomparso.

foto di famiglia

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trascrizione integrale del foglietto manoscritto (manca la prima pagina)

nota: OND = Opera Nazionale Dopolavoro

indetto dall’O.N.D. per ottenere gli onori meritevoli.

Ora io, avendo esaminato le condizioni in cui trovasi la nostra Banda, mi risulta che questa manca di molti requisiti importanti.

Per esigere quanto è mio desiderio, occorre anzitutto:

(a) Aumentare il numero degli elementi

(b) Provvedere che la sala dei concerti sia più vasta

(c) Comprare alcuni strumenti nuovi e fare riparare altri

(d) Rinnovare la divisa, e infine pensare alle altre cose puramente necessarie. Facendo un certo calcolo approssimativo occorrono £ 5000, ed è necessario che Questo On. Comitato s’interessi quanto più presto per il bilancio di questa somma, perché senza di essa non posso dare alcun passo (?)

Avendo acquistato quanto è di necessario, la musica comincerà ad avere il suo incremento con l’inserizione di nuovi elementi.

Io ogni bimestre sottoporrò i musicanti ad un piccolo esame assegnando dei premi allo scopo d’incoraggiare questi allo studio della propria parte, ed evitare gli inconvenienti che spesso avvenivano nella distribuzione delle parti.

Sarebbe bene che prima della prossima stagione invernale fossero pronti i nuovi strumenti, onde potere preparare il nuovo programma da me ideato per iniziare i concerti all’aperto.

È necessario, anche ch’io tenga la Banda sempre pronta per gli eventuali servizi in paese e fuori paese, perciò raccomando a Questo On. Comitato di provvedere con sollecitudine a quanto è di necessario per il buon funzionamento della nostra Banda.

Con ogni osservanza

F. Conforto Acquedolci, 29 – 9 – 1934

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La banda ottenne quanto da lui richiesto e crebbe fino all’arrivo del secondo conflitto mondiale.

collezione famiglia Filadelfio Spinicchia e Maria Rosa Conforto

Scrive Turiddu Lo Balbo, figlio di Cirino, maestro della banda “Filadelfio Conforto”:

Erano gli anni trenta e ad Acquedolci si sentiva forte l’esigenza di poter suonare per accompagnare le serate da ballo e i funerali, ma specialmente per fare festa ai propri santi. Nonostante le iniziali difficoltà, il complesso bandistico stentava a nascere. “Concertini” e “Festicciole” erano occasioni di allenamento per questi temerari “musicanti”. Alla fine La Banda cominciò a muoversi ed a farsi apprezzare.
Negli anni ’40 divenne un complesso di discreta qualità. La Guerra affossò il “sogno” bandistico…
Ecco i componenti della “Prima” indimenticabile Banda di Acquedolci:
Filadelfio Spinnicchia (trombone), Costantino Pipero (Bombardino), Filadelfio Di Leo (clarone), Luigi Lo Cicero (genis), Filadelfio Cassarà (clarinetto), Carmelo Pruiti (sassofono), Cirino Lo Balbo (quartino), Giuseppe D’Angelo (grancassa), Cirino Salanitro (piatti), Benedetto Rubino (flicorno), Benedetto Vasi (clarino), Paolo Mancuso (clarino).

foto da Turiddu Lo Balbo)
(foto da Turiddu Lo Balbo)
Anni 30 Processione del Venerdì Santo – via Nazionale (A.C.M. mostra del 2001, da collezione privata)
1942 la banda “Conforto” nel cortile delle scuole elementari (A.C.M. mostra del 2001, da collezione privata)